“Qualcosa, là fuori” di Bruno Arpaia. E il tempo

In questi giorni una nebbia fitta e ferma si appoggia alle cose. Un biancore lattiginoso, spumoso, e anche crespo come l'aria polverosa. Ad ogni respiro le narici incamerano un miscuglio ruvido, diafano, e immagino i polmoni cartavetrati e opalescenti.
In questi giorni, dai pensieri zampillano anche reminiscenze spazio-temporali che, unite alla nebbia sabbiosa, mi fanno pensare a "Qualcosa, là fuori" di Bruno Arpaia (Guanda, 2016).
L'ho letto diverso tempo fa. Ha una bellezza desertica, opalina come la nebbia che respiriamo in questo tempo intriso di umidità e polveri.
La storia viaggia su piani alternati e sfalsati, raccontati con scrittura fluida, quel modo liscio che Arpaia ha di mettere insieme le parole; una traccia sciolta, senza ingombri, apparentemente semplice, ma è un movimento a sottrarre.
È più facile complicare che armonizzare, più facile aggiungere che togliere. Invece, il lavoro di accordo fatto sulle parole è come una scultura di scalpello che scava e leviga. Lo ritrovo sempre nei libri di Arpaia: la sostanza degli accadimenti, mescolata, alternata alle descrizioni di paesaggi volti gesti, esce leggera, essenziale, anche quando i pensieri hanno natura pesante. Raccontare diventa un evento naturale.
La storia oscilla dentro uno spazio-tempo tra il 2078 e il 2038, scorre avanti e indietro a raccontare quel che rimane della vita di Livio Delmastro, anziano professore incolonnato con migliaia di altri corpi in marcia verso nord. In un futuro non troppo lontano (il 2078), Bruno Arpaia racconta una Europa trasfigurata, deserta, inerte come la nebbia polverosa. Il viaggio di Livio e dell'umanità compatta insieme a lui, è l'ultima via per raggiungere le terre all'estremo nord, un tempo glaciali e ora unici lembi miti del pianeta. Livio è solo, ha perso tutto molti anni prima, e ad ogni tappa del cordone arido arrampicato tra Italia Germania e Scandinavia, scorgiamo un frammento della vita di prima: una compagna amata, un figlio, la sua attività di neuroscienziato negli Stati Uniti. Era il 2038 e il mondo un po', ancora, sorrideva.
Un arco temporale di 40 anni spinto davanti al nostro sguardo, furiosamente vicino.
La scrittura di Arpaia attraversa spazi sconfinati e decomposti dal lavorio umano, descrive un mondo nudo, terra di nessuno, dove le regole sono dettate da gruppi di sopravvivenza e da lotte per l'attraversamento del territorio. Un mondo imbrigliato nell'arsura e nella solitudine.
Torno al tempo e a quel che mi ha riportato a questo romanzo.
È sempre una questione di tempo, e di percezione, categorie difficili da stabilire, flessibili, variabili, sfuggenti, approssimative, ingannevoli, promiscue, necessarie, inevitabili.
Sarà l'età, ma il tempo lo sento correre, e pure la percezione del mondo. Anche lo spazio (città, deserti, oceani, stati, continenti, tutti immensi) sembra contrarsi al crescere del nostro brulicare, e sembra spegnersi sotto il peso delle nostre vite.
La nebbia polverosa che questa sera, dopo un po' di sole, sta di nuovo ovattando il paesaggio, mi riporta alle reminiscenze zampillanti sul tempo.
Penso a "L'uomo che visse nel futuro", film di George Pal uscito nel 1960. "The Time Machine" è il titolo originale, lo stesso del romanzo a cui si ispira, il magnifico viaggio scritto da H.G. Wells nel 1895. Un romanzo visionario, bellissimo. E anche il film. L'avventura di un uomo che vede il tempo come la quarta dimensione tracciabile nello spazio; una dimensione dentro la quale i corpi possono muoversi, esattamente come nelle altre tre. Ma il tempo non ha sostanza, non è visibile in sé, non occupa un volume, uno spazio, non ha un peso. Attraversarlo è un orizzonte di possibilità, un'impresa solo apparentemente impossibile.
"Qualcosa, là fuori" con il suo andare e venire, con le dense e minute descrizioni di paesaggi mutati, trasfigurati, e che pure sono lì, immobili, mi porta al libro di Wells, e al film di Pal (con Rod Taylor, magnifico per me, ad incarnare lo stesso Wells).
Non sono bizzarri rimbalzi né accostamenti stravaganti. È la percezione della plasticità del tempo, delle sue regole curve, tracciate dalla fisica quantistica. Ecco, Wells nel 1895 era quantico.
E c'è un felice incrocio. Il 1895 è l'anno in cui è nato il cinema; non il meccanismo, ma lo spettacolo cinematografico, nel celebre Salon indien du Grand Café del Boulevard de Capucines a Parigi. Anche il cinema è una macchina del tempo; con lui, attraverso lo schermo, si viaggia indifferentemente tra presente passato e futuro. Si attraversa il tempo.
La percezione del tempo a me pare il motore della lungimiranza. Nelle cose belle, in quelle meno belle. Il Viaggiatore del Tempo di Wells è come Livio, è come lo scrittore che con lo sguardo affacciato sul mondo e sull'immaginazione sprigiona la lungimiranza addensata nelle cose: oggetti, esseri viventi, sensazioni.
Seduto in un tranquillo vagone ferroviario. Accanto ad un grande finestrino, lo sguardo a favore del movimento, il posto di fronte libero per cambiare di tanto in tanto posizione e guardare, non solo il paesaggio a venire, ma quello appena lasciato.
"Persino il tempo aveva bisogno di tempo per passare", scrive Bruno Arpaia.