90 anni di Festival “La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. 1932-2022”. Conversazione con Gian Piero Brunetta

La Mostra del Cinema di Venezia ha 90 anni. È nata il 6
agosto 1932 sulla terrazza dell'Hotel Excelsior, Lido, fronte mare. È il
festival internazionale del cinema più longevo, il primo a nascere nel mondo.
La Mostra è una vecchia signora abbastanza in forma, ne ha
viste e passate tante, soprattutto nel Novecento. 90 anni per 79 edizioni, con
alcune interruzioni: prima la cadenza biennale dell'evento (diventa annuale dal
1935), poi la guerra, e ancora, il difficile periodo post '68. Insomma, un
andamento quasi regolare e qualche cesura che, se non dà continuità all'evento,
la dà però alla storia.
E la storia, quella nazionale e internazionale, entra nel
festival come il fondale di una scenografia ma poi si frammenta e mescola tra
le scene, i protagonisti, la narrazione di ogni edizione.
A raccontare tutto questo e molto altro ci ha pensato Gian
Piero Brunetta, professore emerito di Storia e critica del cinema
all'Università di Padova, di certo il maggiore studioso della materia in
Italia. È suo il voluminoso "La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica
di Venezia. 1932-2022", edito da Marsilio/La Biennale di Venezia e uscito in
occasione dei 90 anni di festival.
È la prima storia della Biennale Cinema. Fino ad ora nessuno
l'aveva scritta, forse perché le tracce della Mostra sono, da una parte il peso
specifico dell'archivio visivo (fotografico e cinematografico) e documentale
che l'ASAC, l'Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale,
custodisce; dall'altra i cataloghi delle diverse edizioni. Ma dare ordine e
soprattutto raccontare i 90 anni del primo evento internazionale dedicato al cinema,
restituisce non solo una mappa storiografica dei film e dei personaggi passati
dal Lido di Venezia, ma fotografa e dettaglia i contributi, le interferenze, le
trasformazioni sociali, politiche e culturali di quasi un secolo.
Per celebrare questi primi 90 anni, nulla sembra più
prezioso che sfogliare insieme all'autore questo libro voluminoso, e come dice
lo stesso Gian Piero Brunetta, denso di dati e soprattutto di narrazione
avvincente. La conversazione con lui restituisce riflessioni, incursioni lungo
tutto il XX secolo e ricordi, con la consapevolezza che il cinema è un viaggio
attraverso l'immaginazione sfrenata e la realtà vitale.
È la prima volta che viene realizzata un'opera dedicata alla storia della Mostra del Cinema di Venezia. È un lavoro prezioso.
Sì, è la prima volta. È un libro concepito per essere letto in vario modo, comunque lo si prenda: un saggio storico ma anche un racconto che avvince e, una volta entrati, c'è il desiderio di proseguire per sapere cosa è accaduto anno dopo anno. Mi ha guidato la logica di un lungo dialogo con il lettore, per raccontargli una storia nel dettaglio e per tenere viva la sua curiosità.
È uno dei pregi del libro: evitare che la storia del festival diventi un catalogo informativo.
Sì, c'è il rischio di creare un elenco telefonico. È una questione che ho sempre affrontato con le diverse storie del cinema e mi sono sempre posto il problema di come evitare il mero elenco, mantenendo il massimo di informazione possibile senza però annoiare il lettore.
L'ambizione di questo libro è che ci sia tutto, non solo la storia del festival di Venezia ma tante altre storie che trovano spazio dentro la Mostra.
E infatti, la Mostra si intreccia con la storia del paese, i fatti, i cambiamenti sociali, politici, culturali che l'hanno influenzata e forse anche il contrario, il festival ha inciso sul contesto.
La storia d'Italia e quella internazionale sono entrate nell'isola dalla prima edizione. Si vedeva nelle scelte dei film e delle giurie, nelle figure apparse di volta in volta e nel clima respirato nei diversi periodi del festival. Negli anni '30 la Mostra sembrava una Ginevra delle nazioni, aperta al dialogo e alla diplomazia internazionali senza subire interferenze. Poi il fascismo è entrato in modo importante, attraverso i finanziamenti, il controllo delle premiazioni e con l'alleanza italo-germanica negli anni di guerra. Sono comparse figure della cultura e della propaganda italiane e tedesche, compreso Goebbels; mentre nel dopoguerra è arrivato il sottosegretario alla presidenza del consiglio Giulio Andreotti, oltre a vari ministri. Da allora in poi, la politica è entrata in ogni momento della storia veneziana, fino a quando la Mostra ha acquisito una propria autonomia istituzionale (nel 1998 la Biennale diventa "Società di cultura", ndr), a quel punto il peso della politica si è fatto sentire attraverso giudizi, aspettative, presenze fisiche, ma l'istituzione ha riguadagnato una sua autonomia culturale.
Nel libro tutte queste sfumature si colgono anche grazie alla scansione dell'opera: sei sezioni ordinate cronologicamente, e ognuna organizzata attraverso percorsi dettagliati su film, attori, registi, pubblico... compresa la realtà intorno. Ogni parte sembra un mondo.
All'inizio del libro, con grande senso del divertimento e dell'orgoglio veneziano, ho scritto che sono stato ispirato dai teleri di Tintoretto nell'immaginare ogni capitolo e le connessioni d'insieme. Mi sono chiesto come mescolare tra loro diverse storie, dare colore a certi aspetti, portare in primo piano personaggi, oppure film, o il pubblico, e far sentire che la storia non era solo paesaggio di fondo ma entrava nel festival. Ecco l'ispirazione ai teleri, un modo di raccontare che a Venezia abbiamo respirato fin da ragazzi. Ho pensato a capitoli autonomi, leggibili come storie a sé ma collegate tra loro, dando toni più forti a personaggi, presidenti, direttori, oppure film. Ho deciso di raccontare alcune trame di film confrontandomi con i miei primi lettori. Scelte narrative fatte man mano che scrivevo. Per la cornice storica inizialmente avevo pensato ad una cronologia degli eventi più importanti inserita alla fine di ogni parte, ma non funzionava. E torna l'ispirazione dei teleri.
Nel libro c'è grande attenzione al pubblico. Nel 1932 la Mostra è stata vista da 25 mila spettatori, un numero enorme per la prima edizione. E nel tempo è cresciuto in modo esponenziale, tuttavia lei sottolinea che ancora oggi non è possibile delineare il pubblico pienamente.
Sì, 25 mila spettatori il primo anno è un numero enorme, e di questi, 17 mila erano paganti. Non è poca cosa. Quando è nato, il budget del festival era modestissimo, con un contributo minimo dal Comune e uno dal Governo. Il vero budget era sostenuto dal pubblico, così mutevole per tipologia che do due dati: nel 1932 tra il pubblico c'erano 20 critici, 20 persone che sapevano parlare di un film e migliaia che erano spettatori e basta; adesso, edizione 2022, c'erano 12 mila accreditati, tutte persone motivate per ragioni culturali: dal direttore di un cineclub al corrispondente di una piccola rivista online, al giornalista internazionale, si è moltiplicato un pubblico che la Mostra riconosce come competente e necessario. Nelle diverse edizioni è possibile scomporre il pubblico a seconda del periodo, ma la tendenza è sempre più verso un pubblico in attesa, in aumento e mutevole.
Ha evocato la figura del critico cinematografico. Nel tempo è cambiata e oggi risulta un po' estromessa, ridimensionata.
Dare spazio alla critica è un aspetto a cui tenevo. Negli anni '30 è stata prodotta una quantità enorme di recensioni, materiale tra cui ho dovuto scegliere per rendere più scorrevole la narrazione. Ma questo dà l'idea del ruolo che aveva il critico cinematografico. Fino all'inizio degli anni '70 il critico era in grado di seguire tutto. Negli anni '60 avevo tra i venti e i trent'anni, li ho vissuti con la febbre di cinema che mi spingeva a vedere tutto, e riuscivo a farlo. Questo perché i film in Mostra non erano tanti come oggi. Dalla direzione di Carlo Lizzani in poi, il numero di film e di sezioni cresce così tanto che il critico tradizionale comincia ad entrare in affanno. Quando accanto al concorso si moltiplicano le sezioni collaterali, è costretto ad avere a fianco un secondo critico, poi un terzo e spesso un quarto. Dagli anni '80 in poi si è cominciato a raccontare la Mostra prima che cominciasse: interviste a registi, presidenti, direttori, attori, produttori. I grandi quotidiani facevano inserti di sedici pagine in cui si raccontavano anticipazioni, si facevano vaticini sui vincitori e altro. Poi è arriva in massa la critica televisiva che ha ridotto ancora di più lo spazio del critico puro. La TV parla del film nel giorno stesso in cui viene proiettato, guadagna sui tempi e attira l'attenzione perché ha un rapporto diretto con l'ambiente e i protagonisti. Le generazioni come la mia si sono formate leggendo i critici sui quotidiani e nelle riviste specializzate, adesso chi va a Venezia lo fa con l'intenzione di essere lui il recensore. E la fede nel grande critico è venuta meno.
La Mostra del Cinema di Venezia è il primo festival internazionale nato al mondo e da subito ha costruito un rapporto stretto con tante cinematografie mondiali.
Sì, la Mostra ha il merito di aver creduto nel cinema come mezzo di diplomazia culturale. È stata una cosa importante per il fascismo che a dieci anni dalla conquista del potere non aveva grandi connessioni. Venezia diventa un ottimo modo per avere dialogo e confronto. Una caratteristica del festival che nel tempo si espande, anche se durante il fascismo pesa la scelta di dare spazio ai critici che difendono una cinematografia ideologica. Nonostante questo, c'è un'espansione culturale costante. Oggi la Commissione guidata da Alberto Barbera vede oltre duemila titoli. La Mostra è un vero termometro e un luogo condiviso mondiale: ogni anno si aprono le selezioni per partecipare ad uno spazio dedicato ai temi del momento che capta gli umori del mondo.
A questo si collega il ruolo del festival nello sviluppo di linguaggi, modelli narrativi, dinamiche produttive. Esiste un vero e proprio filone di studi.
Negli ultimi anni sono nati insegnamenti universitari in cui si studiano i festival nelle loro dinamiche culturali, turistiche, per il valore che hanno nell'economia del territorio, per ciò che ogni singolo spettatore porta. Attraverso un festival come quello di Venezia, da una parte si possono seguire le dinamiche del cinema mondiale (dalle cinematografie indipendenti alle grandi produzioni, dalle piattaforme tipo Netflix al film fatto con il telefonino), dall'altra il festival smuove il turismo culturale, l'economia dei territori che mettono in gioco elementi non solo filmici.
Ci sono due grandi cesure nella storia del festival: durante la guerra e poi dopo il '68. Che peso hanno avuto le pause?
L'interruzione per la guerra ha dato la possibilità alla cultura veneziana di avere una reazione di orgoglio. La rinascita nell'immediato dopoguerra viene dalla volontà veneziana di non perdere qualcosa di molto importante; su questo incide anche la nascita del Festival di Cannes che avrebbe voluto cancellare Venezia. La città ha una reazione di grande orgoglio e riconoscenza nei confronti di Elio Zorzi (direttore del festival dal '46, quando la Mostra riparte dopo la guerra, al '48, ndr) e delle istituzioni veneziane che lo sostenevano. Dunque, Venezia non perde il suo primato. Negli anni dopo il '68 non è così. Dopo la direzione di Gian Luigi Rondi, dal '72, c'è una vera caduta: si attende un nuovo statuto che però non porterà miglioramenti, soprattutto per la farraginosità del comitato scientifico e direttivo. Viene a mancare la fiducia nel Lido e in Venezia, un momento di vuoto che porta ad un arretramento della percezione del festival e del suo primato. Ne guadagna soprattutto Cannes, nella capacità di dialogare con la grande produzione internazionale e nell'attirare critici e pubblico. Dal '79, con Carlo Lizzani e con la consapevolezza di rimettere in funzione i premi (sospesi nel '69, nrd), la Mostra comincia la sua risalita. Oggi è di nuovo in prima fila.
Un momento decisivo per la ripresa è la trasformazione della Biennale da apparato statale ad istituzione autonoma.
Sì, è decisiva la nascita della "Società di cultura" ed è decisivo il ruolo di alcuni presidenti e direttori del festival, figure che hanno impresso una rotta importante, avendo visioni generali complessive e proiettate in avanti.
Oggi che peso ha la Mostra rispetto ad altri festival internazionali del cinema?
Ha riguadagnato spazio grazie al Covid e al suo coraggio. Nel 2020 ha aperto quando gli altri festival non lo hanno fatto.
E ha riunito sul palco della Sala Grande gli otto direttori dei maggiori festival internazionali.
Sì, è stato un momento importante, con un valore simbolico grandissimo. Ci sono poi le scelte fatte negli ultimi decenni che hanno ridato prestigio, aura, sacralità e credibilità al festival di Venezia, per cui oggi tutti desiderano venire alla Mostra.
A cosa servono oggi i festival del cinema? L'universo di immagini a disposizione va molto al di là della fruizione nella sala buia che, anzi, è decisamente in crisi.
È un grande problema che il Covid ha moltiplicato. Se non ci fosse stata la pandemia forse questo dissanguamento delle sale sarebbe progredito più lentamente. Nonostante questo, pensiamo alla storia dei festival per tutte le buone ragioni dette e per il fatto che il pubblico può ritrovare il senso della sacralità del guardare insieme. Un'attività che altrimenti andrebbe persa: l'istituzione festival permette di dare vita a qualcosa che poi troverà altra vita attraverso diversi canali. La maggior parte dei film non andrà in sala, però il fatto di respirare per dieci giorni al Lido un'energia positiva nelle sale e fuori (il senso dell'evento condiviso) è straordinario. Una possibilità che non vorrei perdere, proprio sapendo che qualcos'altro è in crisi. Alcuni film pochi mesi dopo saranno su una piattaforma, viene da chiedersi perché dovremmo andare a vederli in sala, eppure il festival permette di condividere emozioni di attesa, e il luogo aiuta molto.
Tra le fonti che ha utilizzato c'è l'ASAC, l'Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale.
Sì, l'ho utilizzato in maniera decisiva per il corredo fotografico. E poi, dato che era difficile andarci durante la pandemia, ho fatto riferimento all'ASAC per ricerche mirate. Quando mi è stato possibile andarci, l'ho fatto per le cose che mi mancavano e ritenevo importanti. Ho avuto la possibilità di vedere il funzionamento dell'Archivio, la sua catalogazione straordinaria, l'efficienza e la competenza del personale, cose che ignoravo.
Quanto è importante un archivio come quello dell'ASAC che riunisce tutte le arti di cui La Biennale si occupa?
È straordinario quanto oggi sia aperto e disponibile ai ricercatori e quanto lo sarà ancor di più con il trasferimento all'Arsenale. Soprattutto apprezzo molto le scelte della presidenza e di chi lo dirige nel rendere l'archivio una realtà non marginale a cui ricorrere ogni tanto, ma una struttura portante. È un luogo in cui fare ricerca, non solo sul cinema ma sull'intera Biennale che è un termometro unico per le arti del Novecento. Penso di aver usato una minima parte dei documenti dell'ASAC, c'è ancora molto da fare per le generazioni presenti e future che vogliano andare a consultare direttamente i documenti. È un luogo in cui il ricercatore che voglia raggiungere degli scopi ha molte possibilità di avere successo.
Dopo aver ricostruito la storia della Mostra del Cinema, da studioso e da assiduo frequentatore del festival, qual è l'edizione o il periodo che le è più caro?
Sono i festival che mi hanno formato, dal '60 al '68. Quel periodo per me è stato decisivo. Sono gli anni in cui, oltre a vedere tutto, ho anche capito (come guidato da una mano che mi indicava la strada) cosa volevo fare nella vita.
Conversazione con Gian Piero Brunetta, docente e studioso di cinema
pubblicata nella rivista REM, Anno XIII, n. 3 del 31 ottobre 2022, Apogeo Editore pp. 24-29