Alessandro Rossetto. Una certa aria di frontiera

Due
lungometraggi, "Piccola patria" e "Effetto domino", presentati alla
Mostra del Cinema di Venezia; un lungo percorso come documentarista, molto
apprezzato a livello internazionale; un nuovo film, "The Italian banker",
pronto per uscire.
Alessandro
Rossetto ha lo sguardo aperto sul mondo e però attento e sensibile ai territori
che gli stanno intorno. È uno di quei registi che ascolta la realtà, misura
l'inquadratura cinematografica su spazi ampi e adatta l'occhio a ciò che
accade, nel momento in cui accade.
Un
approccio antropologico, con studi a Bologna e a Parigi, dove si è formato al
cinema documentario. Ma c'è un nordest italiano a cui torna e che, parole sue,
"ha una certa aria di frontiera" e nel suo immaginario combina "territorio,
personaggi, lingua" come qualcosa che "viene proprio dalla terra".
Al centro dei suoi film ci sono sempre situazioni molto complesse, con una grande attenzione alle incrinature umane e sociali, e un forte legame con il territorio nel quale quell'umanità si muove. Cosa la spinge verso queste storie?
Credo non sia mai facile per un autore spiegare i motivi. "Piccola patria" e "Effetto domino" sono film diversi fra loro. Il primo è un soggetto originale, una storia d'amore torrida che però tocca elementi come la politica locale, la difficoltà del lavoro, il potere della famiglia. "Effetto domino" invece è tratto da un libro e dunque ha una traccia preesistente. Al centro c'è la realizzazione di un grande progetto edilizio, al quale ho collegato le dinamiche familiari dei protagonisti; ma poi il film si apre, da una parte a una dimensione internazionale e globale legata agli investimenti di denaro, dall'altra a una più profonda: la paura della morte e la prospettiva di poterla rinviare. In entrambi i film sono essenziali l'universo familiare e, per motivi diversi, il tema del tradimento.
Anche il territorio è un elemento forte nei due film. In "Piccola patria" i personaggi e la storia si muovono in un paesaggio che li caratterizza, ma tutto sommato fa da sfondo. Invece in "Effetto domino" il territorio è protagonista: il racconto ruota intorno a una trasformazione edilizia ambiziosa.
In "Piccola patria" sono protagonisti i sentimenti: c'è una relazione amorosa che scatena gli eventi. Il territorio è immutabile, cristallizzato, è circoscritto all'azienda agricola dove vivono i protagonisti e a un albergo futuribile, che però è a soli trenta metri dall'azienda agricola: l'ho definito il "borgo della tragedia". In "Effetto domino" invece il territorio è quasi un personaggio, agisce e cambia nel tempo. I protagonisti del film vogliono trasformare quello che hanno intorno, che a sua volta è già cambiato perché degradato. Il ruolo del territorio poi si amplifica, arrivando al lontano Oriente, in questo senso è doppiamente protagonista: ciò che accade a diecimila chilometri ha delle ricadute sul territorio dove i protagonisti agiscono.
Mi viene in mente l'effetto farfalla: batte le ali e provoca un uragano dall'altra parte del mondo. Dall'Estremo Oriente ad Abano Terme.
Ho scelto la zona termale a sud di Padova come ambientazione perché offriva una serie di possibilità ai fatti raccontati nel film. Alcuni alberghi costruiti negli anni Sessanta-Settanta si offrivano già sulla via del cambiamento, erano già "attivi" come personaggi: davano la possibilità di mostrare che erano già in rovina e potevano diventare oggetti da trasformare.
Il film che rapporto ha con il libro "Effetto domino" di Romolo Bugaro?
Un rapporto complesso. I capitoli in cui il film è diviso non hanno a che vedere con i capitoli del libro e il film si può definire "liberamente tratto da". Il protagonista Rampazzo e la sua famiglia non sono in primo piano nel libro come invece sono nel film; nel libro non ci sono investitori esotici che cambiano le sorti del progetto e non si parla di Oriente; e non c'è la prospettiva, molto contemporanea e un po' futuribile, dell'Infinity Life, cioè la creazione di moderni e sofisticati resort per ricchi anziani. Anche gli esiti della storia sono diversi nel romanzo e nel film. Ciò che però resta nodale in libro e film è l'effetto domino, tecnicamente definito un "fenomeno": agisco e il mio agire, positivo o negativo che sia, ricade su qualcun altro sconosciuto ma molto vicino a me nella catena del lavoro. La divisione in capitoli aiuta nel film il racconto dell'effetto domino.
Invece che ruolo ha avuto Romolo Bugaro nella scrittura del film?
Ho incontrato Romolo all'inizio del progetto e lui conosceva il mio lavoro. Non si è mai posto il problema della fedeltà al libro. L'ho tenuto al corrente di come procedeva la scrittura e delle scelte che andavamo facendo: gli piacevano ma non ha partecipato alla scrittura. Romolo è un avvocato, "Effetto domino" e altri suoi lavori sono frutto della sua esperienza lavorativa. Ci ha dato dei pareri su alcune scelte e aspetti che andavano valutati: per esempio il rapporto tra gli imprenditori e le banche. Il film gli è piaciuto molto, gli è piaciuta la scelta di libertà che lo allontana dal libro.
Forse questo è l'approccio migliore per un film ispirato a un libro: non essere fedeli. Romanzo e film utilizzano linguaggi differenti.
Sì, non ne farei una regola ferrea, però è chiaro che, per esempio, l'effetto domino raccontato nel libro è molto più ampio. Nel film non avremmo potuto raccontarlo per intero: alcune parti inserite nella prima versione della sceneggiatura aprivano il racconto in modo sconsiderato e furono tagliate. Le vicende dei personaggi protagonisti sono rimaste abbastanza vicine a quelle del libro e i loro nomi sono gli stessi. Per il resto, a parte la scelta (ispirata dai luoghi) di rendere gli alberghi protagonisti, abbiamo fatto scelte operative per il film, come focalizzare sulla terza età e la nuova destinazione d'uso degli edifici.
All'interno dei due film sembra esserci una punteggiatura nella narrazione. In "Piccola patria" sono inserite delle riprese aeree che staccano: cessano i dialoghi, scompare la presenza umana, c'è solo il territorio desolato dall'alto, musica e canti.
In "Effetto domino" l'elemento di punteggiatura sembra essere la voce fuoricampo dell'attore Paolo Pierobon che ogni tanto interviene.
Sì, ma sono cose che vanno in direzioni diverse. Riprendere dall'alto in Piccola patria sottolinea il quadrilatero della tragedia, ben presente in tutto il film. Anche "Effetto domino" ha riprese dall'alto, però hanno un altro senso: nelle riprese aeree vediamo i manufatti, gli alberghi, l'opera dell'uomo nei cantieri. La voce off di "Effetto domino", invece, è una scelta di scrittura: senza la voce fuoricampo, il film sarebbe stato troppo duro a mio parere. Con Caterina Serra (che ha scritto con me la sceneggiatura) abbiamo considerato necessario tentare di prendere una distanza, diluire la durezza del racconto. Non è la voce di un personaggio, è molto cangiante e ci informa di quello che è accaduto ma non vediamo, di quello che sarebbe potuto accadere, commenta nell'intimo i personaggi o, addirittura, anticipa lievemente ciò che accadrà. Questa scelta ha portato con sé quella che ritengo la vera punteggiatura del film: la divisione in capitoli ispirata dal libro.
Dopo aver visto "Effetto domino" mi aspettavo di sentire rabbia per le vicende umane e sociali che il film racconta. Invece la sensazione più forte è stata il gelo. Mi è venuta in mente la luce del film che è molto cerulea, algida, piena di blu. Mi sono chiesta perché non sono riuscita ad arrabbiarmi, se c'è un legame tra il gelo provato e la fotografia fredda, se è stata una scelta di regia.
Ci siamo accorti che il colore del film, quasi nonostante noi, ha implementato il senso di gelo. Non ne sono particolarmente soddisfatto. A posteriori viene da considerare che la durezza del racconto e la poca speranza che lascia fossero sufficienti, e probabilmente se avessimo colorato il film con toni più caldi saremmo stati altrettanto duri ma meno raggelanti. Sappiamo che qualcuno ha considerato eccessiva la durezza. Resto soddisfatto del film, però credo che la scelta fotografica così fredda abbia reso il film più ostico di quanto sia.
Ha studiato antropologia, ha realizzato diversi documentari, nel 2010 il New York Documentary Film Festival ha dedicato una retrospettiva ai suoi lavori. Qual è l'aspetto della documentazione che l'aiuta di più nei film di finzione?
Sia "Piccola patria" sia "Effetto domino" devono molto alla mia esperienza documentaria. In entrambi i film, come modalità di regia, ho sfuggito la possibilità di una messa in scena totale, portando la finzione dentro la realtà. L'esperienza documentaria mia e delle persone che hanno lavorato con me è stata essenziale. Si tratta di lavorare ad una serie di take in cui è spesso "buona la prima", perché la realtà è irripetibile e il film la interpreta. In "Piccola patria", quando ho trovato l'albergo e l'azienda agricola vicina, ho cambiato la sceneggiatura per adattarla ai luoghi. Senza l'esperienza documentaria sarebbe stato difficile fare il film. E non avrei potuto realizzare "Effetto domino" se non avessi avuto a disposizione gli alberghi dismessi, se non avessi coordinato le riprese con una serie di veri lavori sugli alberghi: siamo stati noi a rincorrere ciò che accadeva. Lasciare la porta aperta alla realtà è un approccio documentario.
Questo approccio legato alla realtà è un elemento di valore nei due film.
Da un punto di vista formale, della regia, è uno dei punti salienti, significa che il tempo della ripresa è un tempo creativo, dove non si va solo ad eseguire ciò che è stato scritto. Mentre si gira si rimane disposti al cambiamento.
Ha studiato cinema a Parigi ed è abituato a viaggiare. In "Effetto domino" la dimensione internazionale è molto presente, penso all'inserimento nella storia degli investitori stranieri. Però i film sono ben radicati nel territorio veneto.
Tre aspetti. Trovo il nordest italiano un luogo molto ispirante, permane sempre una certa aria di frontiera. I personaggi (come dice un mio amico sceneggiatore) i xe tuti un fià mati e questo si presta alla messa in scena e al racconto. Una cosa che mi accompagna dall'adolescenza, poi, è una certa aria di assurdo tipica del Veneto e del triveneto, un grottesco che sembra sempre superarti; per questo ho eletto il territorio a nordest come teatro del mio lavoro: questo aspetto l'ho declinato in molti modi, sia nel documentario che nella finzione, per esempio attraverso la lingua, il dialetto. La combinazione di questi tre elementi (territorio, personaggi, lingua) difficili da definire, viene proprio dalla terra, ha qualcosa di molto forte che mi prescinde e mi dispone a pescare senza freni in quel che mi viene offerto.
L'ultimo suo film, "The Italian banker", di cui aspettiamo l'uscita, che rapporto ha con il nordest?
In "The Italian banker" le cose non vanno nella direzione degli altri due film, perché la pièce di Romolo Bugaro (Una banca popolare) è ispirata al noto fallimento di due grandi banche venete, Banca Popolare e Banca Veneta, ma tutto questo non viene mai nominato (si parla di una ideale "banca del nordest"). Sceneggiatura e testi erano più "blindati" che nei miei film precedenti e diversi erano gli spazi d'improvvisazione; in The Italian banker il riferimento al territorio è più vago: è in bianco e nero, è stato girato in una villa palladiana ma in verità non sappiamo dove siamo, ci sono piccolissimi accenni dialettali che potrebbero riportarci al territorio, ma sono vaghi.
Ancora una collaborazione con Romolo Bugaro: ha scritto la pièce per il Teatro Stabile del Veneto e lei ne ha curato la regia teatrale.
Il Teatro Stabile del Veneto ha commissionare la pièce a Bugaro, una cosa che non succede spesso in Italia e di cui va dato atto al Teatro. È stato poi Romolo a propormi la regia. Ho studiato direzione degli attori e sono un attento spettatore del teatro contemporaneo e non solo, è però vero che non avevo mai diretto una messa in scena teatrale. La pièce aveva già un'idea scenografica chiara, difficile però da realizzare. Dunque, dal punto di vista della regia, ho progettato una scenografia audiovisiva: una serie di riprese che sarebbero state proiettate durante lo spettacolo. Il risultato è che i personaggi sono sia sul palcoscenico sia su uno schermo, si creano addirittura delle interazioni tra schermo e attori in scena. La progettazione audiovisiva è l'aspetto saliente dell'idea scenografica per lo spettacolo.
Invece l'idea del film quando è nata?
Quando ci stavamo organizzando per le riprese audiovisive da inserire nello spettacolo. Jolefilm, la casa di produzione di "Effetto domino", aveva un accordo con il Teatro Stabile per occuparsi della parte relativa alle riprese audiovisive. Quando abbiamo scelto il luogo per le riprese, ho proposto al produttore Francesco Bonsembiante di girare il film, addirittura prima di iniziare le prove dello spettacolo teatrale. Ho girato The italian banker a ottobre 2019. Siamo andati in scena a teatro a dicembre 2019 e gennaio 2020, prima a Venezia e poi a Padova. Pièce e film hanno lo stesso cast di attori. Ho montato il film alla fine dell'estate scorsa e la postproduzione è terminata solo recentemente. La pandemia ovviamente ha bloccato lo spettacolo e tiene ferma l'uscita del film.
Sono chiusi i cinema, i teatri e tutti i luoghi della cultura. Che impressione le fa?
Sono uno spettatore, vado a teatro, al cinema, ai concerti, dunque è come se mi mancasse un pezzo di vita. E sono un addetto ai lavori: penso si potesse fare di più per aiutare cinema e teatri a rimanere aperti. Realtà molto più pericolose di cinema e teatri hanno continuato a vivere. Da spettatore sono molto colpito, da lavoratore dello spettacolo credo che pochi settori abbiano subito i danni del mondo dello spettacolo. Credo che soprattutto il cinema ne soffra e soffrirà. Molti teatri hanno un sostegno pubblico totale e vivono grazie a questo giusto fondamento. Il cinema invece ha solo in parte un supporto pubblico in fase di realizzazione, ma il quadro di fruizione è commerciale in senso stretto: senza la vendita dei biglietti non può sopravvivere.
Cosa si aspetta quando le sale cinematografiche potranno riaprire?
Il peggio. Temo che in Italia molti cinema non riapriranno e la progettazione cinematografica diventerà difficile. I film sono opere costose e, soprattutto i film indipendenti, faticano sempre a trovare produzione e distribuzione; le difficoltà aumenteranno. Molti produttori medio-piccoli, che di solito sostengono il cinema di ricerca e sperimentale, non ce la faranno. Non saprei a chi possa rivolgersi adesso un venticinquenne che vuole fare un film. I produttori e i distributori hanno i cassetti pieni di progetti e film fermi e spesso non sono in grado di accogliere nuove proposte di artisti esordienti. Le piattaforme, dove si sta traferendo moltissima audience, avranno sempre più bisogno di contenuti. Ma produrre con le piattaforme è tutta un'altra cosa: il rapporto fra la realizzazione di un progetto e la sua fruizione finale sta completamente cambiando. E attraverso le piattaforme non c'è salvaguardia dell'idea cinema.
La piattaforma non è la sala...
Anche la serialità migliore è ormai di "tipo cinematografico". Però, in Italia permane sempre uno spirito un po' conservatore per cui, mentre in altri paesi si producono serie anche molto ardite, da noi accade raramente. In Italia difficilmente i progetti si aprono alla sperimentazione, a cose che le piattaforme potrebbero comunque offrire: propongono così tanto, perché non offrire anche lavori di nicchia? Abbiamo sempre il problema di una dirigenza polverosa se non reazionaria.
Conversazione con il regista Alessandro Rossetto
pubblicata nella rivista REM, Anno XII del 15 maggio 2021, Apogeo Editore pp. 31.35