Altri colori lontani

Era il 73, forse li 74. Un fermento palpabile copriva
l'aria, e lo sentivi arrivare nei polmoni assieme all'ossigeno. Entrava nelle
arterie e si distribuiva indistintamente all'interno del corpo.
Ero piccola e non potevo capire, ma mi è rimasta come
un'eredità nascosta da godere lentamente nel tempo e sempre più
consapevolmente.
È l'eredità del mio primo passaggio a Milano, immensa e dispersa,
anonima e grigia.
Mia nonna abitava in un sobborgo, uno dei tanti, oggi
indistinguibili e ancora più anonimi.
Ma era prima dell'hinterland, prima di Milano uno, due, tre,
prima degli yuppy e dei cavalieri. Ricordo lo zoo e le filovie, l'odore di benzina
e i vigili con il casco bianco... E ricordo l'università di mia zia. Studiava
alla Statale mia zia, aveva poco più di vent'anni, capelli neri e lisci che scendevano
giù fino al sedere.
Si muoveva con una specie di motorino verde, piccolo e
instabile, sembrava una bambina, più di me.
Aveva un grande atrio la Statale nei miei ricordi, vetrate
luminose e scale. E già lì, quella prima volta, ho sentito quel fermento incomprensibile.
Era un movimento continuo di persone, ragazzi come lei, come mia zia;
sembravano formiche che però cantavano come cicale.
Cantavano al PAL. Ancora oggi questa parola entra nelle mie
orecchie e copre ogni spazio, come l'ossigeno nei polmoni.
PAL era Pace Amore e Libertà, era Claudio, boccoli neri e
occhi d'ebano, che suonava la chitarra tenendomi sulle ginocchia. Era un grande
fuoco giallo, acceso nel giardino verde d'erba e di alberi di mele e pere.
Era la casa bianca occupata dagli anarchici in quel sobborgo
milanese, dove mia zia mi portava per stare intorno al fuoco a cantar canzoni,
a mangiare polenta.
Ricordo ragazze con fiumi di capelli e jeans a pelle e
ragazzi come Claudio, forse anche lui poco più che ventenne. Non lo saprò mai.
Ed era tutto lì il fermento di quegli anni. Io lo ricordo
così. Non mi appartiene, non l'ho costruito con la loro lotta non violenta, con
le canzoni che io non sapevo cantare, con le riunioni e i progetti comunitari
che oggi posso solo immaginare leggendo parole di chi li ha sognati o ascoltando
mia zia che quei sogni me li narrava come fiabe per addormentarmi.
Non la posso capire quella generazione che un po' mi porto
dentro, ma solo per sentito dire, solo come un'eco del tempo.
La vedo guardando gli occhi di mia zia e i suoi capelli, che
non hanno più quello splendore - lo sa bene anche lei - ma portano dentro un
fruscio inaspettato. E io so che sono le canzoni che ha cantato, è la musica
che gli hanno suonato addosso.