Andrea Segre. Un braccio dentro un lago, e da lì il mondo

10.02.2023

È tra gli osservatori più attenti, etnografico e poetico, del cinema italiano. A suo agio tra finzione e documentazione, Andrea Segre è l'autore di film che mostrano sempre la realtà, anche quando tratteggiano linee fantastiche sul mondo.
Il suo ultimo lavoro, Il Pianeta in Mare, racconta Porto Marghera oggi. È stato presentato fuori concorso durante l'ultima Mostra del Cinema di Venezia (Venezia 76, 2019, ndr), ha fatto il giro delle sale, ha mosso sguardi, riflessioni e il regista lo ha accompagnato nei cinema, nelle piazze, dentro i capannoni del Petrolchimico.
Partire da questo, che è un documentario di pura osservazione dove i lavoratori e gli spazi sono lasciati nella loro totale naturalezza, è come spianare la strada al racconto, a pezzi di territorio e alle persone che lo animano.
Porto Marghera è un mastodonte che brulica di passato, un presente incerto e un futuro ancora più vago. Però è un territorio vivo che il regista ha scelto di guardare senza nostalgia o giudizio, lasciando sullo sfondo o addirittura fuori il passato ingombrante che, dice, finisce per diventare una trappola.
Proprio quando la realtà viene vista senza alcuna intenzione, se non quella di renderla evidente, dalle cose guardate zampillano riflessioni, passaggi, camminamenti che vale la pena seguire. Sembra una costante del suo modo di fare cinema.
Perciò, da Porto Marghera lo sguardo si sposta facilmente su territori più ampi, la laguna veneziana sì, e più in generale sul nostro stare al mondo.

Il Pianeta in Mare racconta Porto Marghera oggi. Quali erano le aspettative entrandoci?

La fortuna è che non sapevo esattamente cosa andare a trovare, perché conoscevo quei luoghi solo da fuori, non avevo mai messo piede in un cantiere navale, in una raffineria e in una realtà come la parte del Petrolchimico abbandonata. Il mio spazio di ignoranza era abbastanza ampio, quindi ero guidato da una sincera curiosità. Volevo incontrare persone la cui quotidianità è principalmente legata al lavoro industriale, in un mondo che sembra aver cancellato questa attività e che sembra non riconoscerne l'importanza. Anche perché ne ha paura, ha paura di tutte le ferite e i dolori che ci sono stati. Volevo incontrare le ferite, l'ho fatto e le ferite mi hanno aiutato a capire quanto è difficile oggi incarnare la vita di una persona che fa una cosa che non è riconosciuta importante, pur essendolo. È molto bizzarra la trasformazione dell'essere umano che faceva il lavoro da sfruttato, poi da protagonista di una grande evoluzione, poi da ammalato e oggi è scomparso. Questa evoluzione del rapporto esistenziale tra il lavoro e la vita, dentro una zona industriale, mi incuriosiva molto. Oggi essere lavoratore industriale, operaio specializzato, saldatore è una cosa che ti è capitata, ti dà da vivere ma non rivendichi con la tua esistenza. Ed è una condizione disorientante. Da una parte forse più libera, perché non appartieni a una categoria, dall'altra più incerta, perché non sai come rivendicarlo con te stesso.

Che territorio è Porto Marghera?

È un posto che è stato inventato, progettato, plasmato dalla storia del Novecento e adesso nessuno ha idea di cosa farne, pur essendo ancora vivo. In realtà si potrebbe mettere in atto una grande nuova rivoluzione industriale, perché sull'ipotesi che quel luogo non servisse più si sono costruiti vari interessi di transizione, di chi fa finta che non serva, di chi utilizza quel luogo senza essere troppo ascoltato e controllato, di chi usa i vari interstizi che stanno dentro quella incertezza. Le realtà che provano a starci riescono a fare progetti più sensati. Ma in tutto questo c'è un grande disorientamento. Potenzialmente si potrebbe mettere le mani per incentivare il rapporto tra industria, ambiente e natura. Ci potrebbero essere tante sfide da cogliere in quel luogo. Non può tornare ad essere un ambiente naturale, oltretutto l'industria oggi ci serve: alzi la mano chi non usa cose che escono dall'industria. Cerchiamo allora di farle in un modo nuovo, innovativo. A Porto Marghera lo si potrebbe fare ma non accade. E non so se qualcuno avrà mai il coraggio di farlo in questo malandato paese.

I protagonisti di quel pianeta sono i lavoratori di oggi e quelli che lavoravano nella parte ora dismessa.

Ho scelto di fare il film con Lucio e Nicoletta, due persone che non ci lavorano più, perché sono le ultime che hanno provato a protestare rispetto a quella perdita. Loro mi hanno insegnato quanto è stata sbagliata la direzione di attacco frontale al mondo della chimica. Un atteggiamento che è stato poi utilizzato dalle industrie chimiche per andarsene da lì e non prendersi le responsabilità. Mi interessava il loro presente, non il passato. Com'era la loro vita nel Petrolchimico, com'erano i lavoratori, non c'è nulla di tutto ciò nel film. Adoro la memoria, la ricostruzione, il tempo ma in questo momento è una grande trappola. Mettersi a parlare di com'era una volta, quando i lavoratori stavano tutti insieme, il movimento operaio... è una trappola di cui purtroppo bisogna liberarsi, altrimenti non si capisce cos'è l'oggi e cos'è il domani.

Un freno al presente e al futuro...

Cinquant'anni fa si lavorava diversamente in fabbrica, certo. È una realtà che è stata raccontata ed è importante, ma è un tema che lascio volentieri agli storici e mi auguro continuino a documentarlo. Ho incontrato tanti testimoni pronti a ricordare quella stagione, le ferite, i dolori, i sogni, tutte cose ferme lì che i protagonisti di quell'esperienza hanno voglia di dire e vivere. Però il film è un tentativo di scappare da questo. Lucio e Nicoletta arrivano in un posto che era il loro luogo di lavoro e che è stato svuotato. D'improvviso, scoprono che dentro ci sono ancora dei loro pezzi e capiscono che in realtà è stato svuotato in fretta e riconvertito in niente. Dunque, qualcuno ha fatto il furbo lì dentro. Questo mi interessa. La chiusura di gran parte del Petrolchimico si è affiancata ad una fuga di responsabilità di molte aziende che dovevano chiudere, bonificare, riconvertire e dare ancora lavoro. Invece, hanno chiuso, demolito e sono scappate.

Osservando chi lavora oggi in quell'area si ha l'impressione che tutti siano di passaggio.

Porto Marghera è un luogo di transito perché è in transito. È uno spazio in metamorfosi che non sa bene cosa farà. Sei in transito sia che tu sia bengalese o di Rovigo. Si respira un'aria che sembra dire: chissà se tutto questo ha senso e continuerà. Non c'è la stabilità né l'entusiasmo di un progetto.

La Trattoria da Viola che vediamo nel film fa parte di questa realtà. Anche quello è un luogo di passaggio.

Lo è perché è una trattoria per camionisti, però forse è l'unico posto dove Viola cerca di creare casa, un senso di comunità che da altre parti non si sente. Per questo nel film ha un ruolo antitetico. Viola tenta di dare un calore ad un luogo che non riesce a trasmettere calore, pur essendo molto potente e caldo. La sua fatica è quella di tentate di accogliere, coccolare mondi diversi in uno spazio che per tutti è sempre solo di passaggio. Sembra una trattoria di paese, dentro un posto che non è un paese.

Come hanno reagito le persone a questo sguardo dentro Porto Marghera?

Molti, in modo spontaneo e comprensibile, hanno cominciato a ricordare quando c'era il partito, il sindacato... E io dicevo, sì, ma nel film racconto altro. Soprattutto, però, le persone volevano capire come ho incontrato quelle vite, in che modo le ho raccontate, senza ricorrere all'intervista ma al rapporto diretto con la narrazione.

Marghera Canale Nord, Io sono Li, Il Pianeta in Mare. Sono tutti lavori che sembrano documentare la laguna, dove qualcosa è cambiato nel tempo e qualche altra resiste al cambiamento.

Non ho mai raccontato la laguna di per sé. Sono tutte storie che hanno un'ambientazione lagunare ma non sono un esperto del contesto lagunare.

Da regista...

Intendo dire che non mi interessa la laguna come luogo da investigare, ma come contesto estetico, geografico e umano in cui ambientare delle storie che hanno sempre di base il rapporto tra "qui" e "non qui". I luoghi che ho raccontato hanno a che fare con un qui ben preciso, che però ospita spesso un altrove. Succede con Io sono Li, con i marinai della Kawkab e anche con alcuni lavoratori di Marghera. C'è sempre un'alterità che ha a che fare con la laguna ed è forse l'aspetto più interessante della storia di Venezia: un posto protetto, chiuso che sembra un braccio dentro un lago e però ha sempre avuto tantissimi rapporti con il mondo fuori.

I documentari A sud di Lampedusa, Come un uomo sulla terra, Mare chiuso, fino ad arrivare al film L'ordine delle cose, raccontano i migranti, i loro viaggi, le terre d'Italia e d'Europa da raggiungere, dove poter stare. È davvero difficile scombinare l'ordine delle cose.

Non sarebbe difficile se ci fosse qualcuno che avesse il coraggio di farlo. La politica è completamente in balia del flusso mediatico e politici che durano davvero tanto ce ne sono molto pochi. Per lo più vengono travolti, sconvolti dalle cose che accadono. Di per sé credo che ci siano dei modi abbastanza chiari per modificare l'ordine delle cose. Bisognerebbe solo avere il coraggio di farlo, non costerebbe neanche tanto. Serve una figura politica che non abbia il limite di dover ottenere il consenso il mese dopo, che sappia costruire un percorso più lungo. All'inizio decidere di far arrivare le persone in maniera regolare produce contrasto, fragilità e insicurezza. Però bisogna avere il coraggio di avviarlo questo percorso. Capisco che sia una cosa difficile da proporre, da fare no.

Finzione e documentario sono due dimensioni narrative agevoli, quasi interscambiabili.

Forse il documentario mi emoziona un po' di più perché mi permette di avere dei rapporti incredibili, di sorpresa con le cose. La finzione mi dà potere creativo, strumenti per esprimere una parte che sembra più libera, quella di poter scrivere e immaginare. Continuo a farli entrambi perché mi sa che mi piacciono entrambi.

Come regista ha un rapporto molto stretto con la produzione e la distribuzione dei suoi film. JoleFilm e ZaLab sono le due case con cui ha realizzato praticamente ogni lavoro. Però è difficile produrre e distribuire oggi.

Dipende da cosa vuoi produrre. C'è un mercato molto grosso per alcuni tipi di film che però ha un meccanismo abbastanza maturo per produrre film d'autore. Dipende anche da che sfida metti in campo, rispetto ai temi che il mercato preferisce, o dalla tipologia di prodotto che vuoi tentare di realizzare. È un mercato che ha allargato tantissimo gli spazi di fruizione: la sala, il web, la televisione. Produce molte più cose, con meno fondi per ognuna, però continua ad essere una realtà che dà delle soddisfazioni. Non è impossibile fare film, è difficile farlo dentro un percorso in cui le tue urgenze sono prioritarie rispetto a quelle del mercato; questo lo paghi anche in termini di possibilità distributiva. Per esempio, mi è piaciuta tantissimo l'operazione che ha fatto Pietro Marcello con Martin Eden. È riuscito a capire quali sono gli spazi di mercato, portando dentro quegli spazi commerciali un suo percorso. Penso che questa sia una sfida importante da poter cogliere. Mettersi contro il mercato di per sé è sbagliato. D'altra parte, accettare completamente quello che il consumo richiede, non è un buon percorso.

E il cinema italiano in questo momento?

C'è un cinema vivo e bello che sta al confine tra il reale, il film d'autore, di ricerca, poetico e ha fatto cose importanti. Negli ultimi anni c'è una generazione rilevante che va da Pietro Marcello a Jonas Carpignano, Alice Rohrwacher, e intorno tanti altri un po' meno noti ma altrettanto importanti, Susanna Nicchiarelli, Laura Bispuri... Questo è un cinema molto vivace, ricco e coraggioso che sta creando uno scarto con la generazione precedente, in molti casi appiattita dentro una logica di racconto un po' stanco, tipo commedia urbana impegnata. Invece a me sembra che l'ultima generazione stia dando uno scatto alla sperimentazione visiva e al rapporto con le questioni esistenziali e sociali più interessanti. E racconta anche luoghi meno scontati. Poi, dall'altra parte, c'è la dimensione della commedia più commerciale.

Il prossimo film è in preparazione.

La sceneggiatura è scritta. Non so quando sarà pronto. Prima o poi lo sarà.

Parla di...

Turismo e Venezia. Turismo e vita a Venezia*.

*Annotazione: il film di cui Andrea Segre parlava era Welcome Venice, la cui realizzazione fu messa in pausa per l'arrivo della pandemia. Rimasto a Venezia (alla Giudecca) con la famiglia, nel 2020 Segre ha realizzato Molecole, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia quell'anno. Welcome Venice è stato poi realizzato ed è uscito nelle sale nel 2021, seguito da Po nel 2022 e Trieste è bella di notte a gennaio 2023.

Conversazione con il regista Andrea Segre
pubblicata nella rivista REM, Anno XI, n. 1 del 15 gennaio 2020, Apogeo Editore, pp. 11-17