Brusio degli occhi

12.04.2023

Due buchi al posto degli occhi. Ho già incontrato qualcuno così.
Molto tempo fa ho sfiorato due fori azzurri, intensi e vuoti, tanto vuoti da contenere tutto.
Erano gli occhi di un grande bluff. Finti come pietre colorate di un mercatino variopinto e rumoroso, e inevitabilmente spontanei quegli occhi di pietra finta ma dura come diamante.
Occhi luccicanti e opachi come perle, di una forma perfetta al tatto e allo sguardo.
Occhi così li ho rivisti molti anni dopo, era un'altra faccia, sconosciuta eppure riconoscibile all'istante come un odore che entra nel cuore e che fiuti non appena si ripresenta ai sensi.
Ero spiazzata davanti a quello sguardo silenzioso. Come la prima volta, anche ora vedevo solo gli occhi, ritagliati in un viso che parlava poco, quasi niente, ma sentivo un'eco sovrapporsi ai suoni minimi emessi.
Qualcosa di esplosivo e conturbante saturava i fori azzurri aperti come finestre. Ma tutto quello che potevo vedere era una calma piatta, la bonaccia che schiaccia il veliero sulla superficie del mare.
Una immobilità priva di ogni sicurezza. Persi nell'oceano, quegli occhi sono l'oceano. Hanno tempo per gustare una solitudine immensa e placida; hanno il dominio dello spazio intorno che ha solo la forma dell'orizzonte sferico e levigato. Ma è una calma apparente, li vento si alzerà prima o poi, lo sguardo si sposterà e l'orizzonte cambierà forma.
Non mi hanno dato sicurezza quelle pietre azzurre, ma calma. Una calma appena sussurrata, quel vocio sensuale che avvolge l'aria quando qualcuno mormora suoni rotondi e impercettibili nelle chiese o nel riposo notturno di un dormitorio.

Accadeva nella camerata della colonia.
Quando restavo nell'esitazione del sonno e del buio, c'era sempre qualcuno appartato nell'ombra che sussurrava lamenti o preghiere infantili.
Eravamo bimbi ammassati e soli. Pieni di vergogna nel chiedere 'come faranno gli altri?' E non trovavo risposta in quel silenzio di camerata notturna, neppure nel brusio complice che mi cullava fino al mattino dopo e mi lanciava nel giorno a respirare quel buon odore di salsedine e di prigione.
Una prigione la colonia, fatta di ritmi scanditi al secondo. Non posso dimenticare le suore vestite di bianco, orologio da taschino e fischietto alla mano.
Passavano le camerate in rassegna come gendarmi, scandivano i pasti, il sonno e il silenzio. Dominavano il tempo e lo spazio levigandolo ogni giorno a loro sembianza.
Quella assegnata alla mia camerata era esile e dolce nello sguardo. Spesso mi appellavo alla sua comprensione e spesso mi restituiva silenzio.
Ricordo che la spiavo nella penombra della notte rischiarata dalla lampadina accesa dietro la sua tendina. Forse credeva di essere protetta da sguardi indiscreti mentre si levava i paramenti di ruolo per tornare, ai miei occhi, umana; o forse sapeva di sguardi che potevano sorprenderla, ma li giudicava abbastanza innocenti da lasciarli entrare.
Il mio letto era il primo, accanto alla sua tendina, e io bruciavo di curiosità per sapere dei suoi capelli... esistevano i capelli di una suora? era una donna, un essere umano come gli altri?
Il pudore mi suggeriva di non scoprirlo, ma il mistero che l'avvolgeva mi teneva incollata all'ombra della sua figura disegnata sulla tela.
La potevo solo immaginare come la copia sfalsata dal supporto di qualcosa di reale. Un disegno sulla stoffa, morbido e affascinante ma che poco aveva a che fare con la figura in carne ed ossa.
E questa immaginazione riempiva le notti in un dormiveglia inquieto e spossante che tratteneva la rabbia e lo spaesamento.
Poi, una notte diversa dalle altre - ora non saprei dire perché - una notte più buia delle altre e più netta nel segnare i profili dell'ombra, quella notte l'ho vista. La sua tenda era mal chiusa e vedevo la sua figura per metà ombra e per metà carne. Ondeggiava muovendosi all'interno del piccolo spazio tra il letto e l'armadio. Toglieva i paramenti uno ad uno e li riponeva con ordine, e li ho visti i suoi capelli castani e corti. Le davano un'espressione di bimbo imbronciato e le toglievano tutta l'austerità dell'abito.
Ero felice, per un istante, per quella notte, ero felice.
Non potevo dire la mia scoperta il mattino dopo, e neppure volevo. Un po' di vergogna mi è passata sul viso quando lei mi ha guardata.
Chissà se l'aveva colto il mio sguardo notturno, non dava alcun segno e comunque quello restava un segreto. L'avrei conservato senza tradirla agli occhi delle mie compagne, ma non avrei neppure avuto il coraggio di confessarlo a lei, ora ricomposta nella figura intoccabile da ogni parola e da ogni silenzio.

Quell'appagamento infantile durato pochi istanti, continuamente minacciato dall'incertezza di un luogo anonimo e costrittivo, è lo stesso appagamento dei due fori azzurri, la loro calma senza sicurezza.
Erano gli occhi di un uomo che mille volte mi ostino a guardare e a non capire. Occhi cristallizzati nel tempo, nei sogni muti che passano rallentati come film in moviola.
Se osservi attentamente puoi coglierne le imperfezioni e questo dà ancora più valore alle immagini e alla sostanza delle cose.