Brusio degli occhi

Due buchi al posto degli occhi. Ho già incontrato qualcuno
così.
Molto tempo fa ho sfiorato due fori azzurri, intensi e
vuoti, tanto vuoti da contenere tutto.
Erano gli occhi di un grande bluff. Finti come pietre
colorate di un mercatino variopinto e rumoroso, e inevitabilmente spontanei
quegli occhi di pietra finta ma dura come diamante.
Occhi luccicanti e opachi come perle, di una forma perfetta
al tatto e allo sguardo.
Occhi così li ho rivisti molti anni dopo, era un'altra
faccia, sconosciuta eppure riconoscibile all'istante come un odore che entra
nel cuore e che fiuti non appena si ripresenta ai sensi.
Ero spiazzata davanti a quello sguardo silenzioso. Come la
prima volta, anche ora vedevo solo gli occhi, ritagliati in un viso che parlava
poco, quasi niente, ma sentivo un'eco sovrapporsi ai suoni minimi emessi.
Qualcosa di esplosivo e conturbante saturava i fori azzurri
aperti come finestre. Ma tutto quello che potevo vedere era una calma piatta,
la bonaccia che schiaccia il veliero sulla superficie del mare.
Una immobilità priva di ogni sicurezza. Persi nell'oceano,
quegli occhi sono l'oceano. Hanno tempo per gustare una solitudine immensa e
placida; hanno il dominio dello spazio intorno che ha solo la forma
dell'orizzonte sferico e levigato. Ma è una calma apparente, li vento si alzerà
prima o poi, lo sguardo si sposterà e l'orizzonte cambierà forma.
Non mi hanno dato sicurezza quelle pietre azzurre, ma calma.
Una calma appena sussurrata, quel vocio sensuale che avvolge l'aria quando
qualcuno mormora suoni rotondi e impercettibili nelle chiese o nel riposo
notturno di un dormitorio.
Accadeva nella camerata della colonia.
Quando restavo nell'esitazione del sonno e del buio, c'era
sempre qualcuno appartato nell'ombra che sussurrava lamenti o preghiere
infantili.
Eravamo bimbi ammassati e soli. Pieni di vergogna nel
chiedere 'come faranno gli altri?' E non trovavo risposta in quel silenzio di
camerata notturna, neppure nel brusio complice che mi cullava fino al mattino
dopo e mi lanciava nel giorno a respirare quel buon odore di salsedine e di
prigione.
Una prigione la colonia, fatta di ritmi scanditi al secondo.
Non posso dimenticare le suore vestite di bianco, orologio da taschino e
fischietto alla mano.
Passavano le camerate in rassegna come gendarmi, scandivano
i pasti, il sonno e il silenzio. Dominavano il tempo e lo spazio levigandolo
ogni giorno a loro sembianza.
Quella assegnata alla mia camerata era esile e dolce nello
sguardo. Spesso mi appellavo alla sua comprensione e spesso mi restituiva
silenzio.
Ricordo che la spiavo nella penombra della notte rischiarata
dalla lampadina accesa dietro la sua tendina. Forse credeva di essere protetta
da sguardi indiscreti mentre si levava i paramenti di ruolo per tornare, ai
miei occhi, umana; o forse sapeva di sguardi che potevano sorprenderla, ma li
giudicava abbastanza innocenti da lasciarli entrare.
Il mio letto era il primo, accanto alla sua tendina, e io
bruciavo di curiosità per sapere dei suoi capelli... esistevano i capelli di
una suora? era una donna, un essere umano come gli altri?
Il pudore mi suggeriva di non scoprirlo, ma il mistero che l'avvolgeva
mi teneva incollata all'ombra della sua figura disegnata sulla tela.
La potevo solo immaginare come la copia sfalsata dal
supporto di qualcosa di reale. Un disegno sulla stoffa, morbido e affascinante
ma che poco aveva a che fare con la figura in carne ed ossa.
E questa immaginazione riempiva le notti in un dormiveglia
inquieto e spossante che tratteneva la rabbia e lo spaesamento.
Poi, una notte diversa dalle altre - ora non saprei dire
perché - una notte più buia delle altre e più netta nel segnare i profili
dell'ombra, quella notte l'ho vista. La sua tenda era mal chiusa e vedevo la
sua figura per metà ombra e per metà carne. Ondeggiava muovendosi all'interno
del piccolo spazio tra il letto e l'armadio. Toglieva i paramenti uno ad uno e
li riponeva con ordine, e li ho visti i suoi capelli castani e corti. Le davano
un'espressione di bimbo imbronciato e le toglievano tutta l'austerità
dell'abito.
Ero felice, per un istante, per quella notte, ero felice.
Non potevo dire la mia scoperta il mattino dopo, e neppure
volevo. Un po' di vergogna mi è passata sul viso quando lei mi ha guardata.
Chissà se l'aveva colto il mio sguardo notturno, non dava
alcun segno e comunque quello restava un segreto. L'avrei conservato senza
tradirla agli occhi delle mie compagne, ma non avrei neppure avuto il coraggio
di confessarlo a lei, ora ricomposta nella figura intoccabile da ogni parola e
da ogni silenzio.
Quell'appagamento infantile durato pochi istanti,
continuamente minacciato dall'incertezza di un luogo anonimo e costrittivo, è
lo stesso appagamento dei due fori azzurri, la loro calma senza sicurezza.
Erano gli occhi di un uomo che mille volte mi ostino a
guardare e a non capire. Occhi cristallizzati nel tempo, nei sogni muti che
passano rallentati come film in moviola.
Se osservi attentamente puoi coglierne le imperfezioni e
questo dà ancora più valore alle immagini e alla sostanza delle cose.