Cesare Pavese. Le poesie

È sempre stata una presenza forte e discreta. Un'impronta
lasciata sulla sabbia appena inumidita, abbastanza compatta da non sparire,
abbastanza morbida da prendere una forma dolce, senza asperità. Cesare Pavese è
per me un narrare lieve e inciso. Da sempre.
L'ho ritrovato da qualche tempo, dopo lunga assenza dalle sue pagine. C'è di
tutto in lui: poesia, racconto, diario, pensieri sparsi, epistolario. C'è il
mestiere di scrivere, senza sosta, lungo una vita che è stata breve e faticosa.
Di lui si è detto, scritto, pensato tutto e il contrario. Se le parole lasciano
segni, quelle di Pavese sembrano linee tracciate da fronde che toccano
l'arenile, un po' lo accarezzano un po' lo graffiano. Hanno un peso, a volte
sono gravose, altre volano a filo come corpi leggeri e saldi.
I pensieri mi frullano scomposti. Anche perché l'averlo ritrovato mi ha portato
soprattutto alle poesie e ai diari ("Il mestiere di vivere" e quel "Taccuino"
puntuto a cui si è voluto dare la qualità di "segreto"; lascio questi testi a
parte, per altra attenzione).
Tutto è partito da Italo Calvino, dopo la lettura del suo epistolario all'amata
compagna Chichita. A quel tempo, l'inizio degli anni Sessanta, Calvino si
dedicava alla cura di tutte le poesie di Pavese, edite e inedite, raccolte in
volume: "Così sono stato preso dalla passione filologica di seguire la genesi
di ogni poesia, e farò in fondo al volume un grosso numero di note, con
varianti etc. Sarà la prima volta che si potrà leggere bene le poesie di
Pavese, cioè il vero libro in cui c'è tutto Pavese, perché – sebbene queste
poesie siano quasi tutte scritte tra il '30 e il '40 – tutti i motivi di Pavese
sono lì, e la critica fin'ora ha sempre trascurato il Pavese poeta, perché è un
tipo di poesia che non ha niente a che fare con il resto della poesia italiana"
("Lettere a Chichita", Mondadori, pag. 26).
Così è stato. Nel 1962 esce per Einaudi "Poesie edite e inedite" di Cesare
Pavese, a cura di Italo Calvino.
Io, presa dal desiderio di ricostruire una mappa, sono andata a cercare la
prima edizione del volume. Ci sono bei tomi moderni, compreso quello Einaudi
del 2020, introdotto da Tiziano Scarpa. A esagerare li prenderei tutti, mi
accontento di questo e di quello un po' ingiallito, copertina rigida, telata,
sovracoperta con particolare di Van Gogh, curato da Calvino, trovato su eBay,
ricevuto accompagnato da un post-it incollato alla copertina che diceva
"grazie", scritto a penna.
È un "grazie" che rilancio, per quell'edizione retrò, i colori virati dal
tempo, il profumo delicato di carta datata tenuta su scaffali colmi; grazie
alla persona sconosciuta che con cura l'ha conservata e spedita.

Parto da qui, dalle poesie.
Prendono un'ampia parte della vita di Pavese, dal 1931 con "I mari del Sud", al
1950 con "Last Blues" scritta pochi mesi prima di morire (a Torino, il 27
agosto). In tutto 129 testi in versi che, come per ogni altro scritto,
raccontano la vita, l'animo, il mondo di Cesare Pavese.
Ogni cosa per frammenti. Istanti, stagioni, luoghi, epoche, venti di guerra e
di pace. Tutto passa nella sua penna in rivoli di appunti, versioni, varianti.
Le minute che Calvino scartabella e studia con entusiasmo e passione per
l'amico, sono piene di schegge vissute, sognate, odiate, amate.
Cesare Pavese era un uomo tormentato, colmo di angoli bui e angusti, spaventato,
a tratti esaltato, incantato come un bimbo; molti amici e colleghi, di lui
pensavano questo: che fosse un eterno fanciullo, incapace o caparbiamente
deciso a non crescere.
L'unica cosa che si può fare per provare a venirne a capo è leggerlo, in tutte
le sue forme. E leggere le parole di chi lo ha conosciuto, gli ha voluto bene, ha
lavorato con lui. Fra tutti Italo Calvino e Natalia Ginzburg che con Pavese
hanno condiviso pezzi di vita, stanze e scrivanie alla Einaudi, parole da
scrivere, altre da valutare, correggere, curare.
Anche a loro in qualche modo Cesare Pavese sfugge, come sfugge ogni persona che
fugge, vuole restare e tuttavia fugge.
Nei tempi in cui la vita e gli scritti di Pavese sono stati sezionati,
radiografati, giudicati, vilipesi, chi lo conosceva bene e allo stesso tempo
comprendeva solo in parte il suo animo, gli amici insomma, erano con lui. Chi
in silenzio, chi lottando a viso aperto a colpi di parole.

Le poesie di Cesare Pavese hanno tutti i caratteri della sua esistenza. Come ha
scritto Calvino, nelle poesie ci sono tutti i motivi di Pavese; una poesia
sostanziosa e fragile, volatile.
C'è la sostanza del mondo, la gioia e la sofferenza che procura; ci sono stati
d'animo, abissi e risalite, costrizioni e rabbia; c'è una continua ricerca di
sé, degli altri, c'è il rapporto con le origini, quello con amici, parenti; c'è il tempo del confino; lo sconfinato
mondo femminile, anelato,
incompreso, sfiorato. Ci sono terra, luce, stagioni, mutamenti, quello che
resta sempre uguale.
Italo Calvino in quella edizione di poesie edite e inedite del 1962, ricostruisce
a fine volume una preziosissima mappa dei testi. La genesi di ogni poesia è
catalogata, ponderata, approfondita. Un lavoro minuzioso fatto sulle minute dell'autore.
Pavese non buttava niente, conservava ogni scritto, breve o lungo, pensieri appena
appuntati o sviscerati; versioni diverse dello stesso testo.
Il giacimento prezioso di uno scrittore e di un uomo che non rinnegava nulla di
sé. Nella passione e nella confusione di esistere, Pavese temeva il buio ma non
la morte, né temeva le contraddizioni della sua persona. Nel suo essere schivo
al mondo, cercava solitudine e contatto, materia e spirito.
Le poesie dicono di corpi, vita, morte. Una vita breve, in un corpo fragile che
guardava la morte dritta negli occhi.
