Chu Teh-Chun, In Nebula. Alla Piscina Gandini di San Giorgio

Entrando alla Piscina Gandini, sull'isola di San
Giorgio Maggiore, la sensazione è un balzo nel tempo.
È uno spazio silenzioso, immerso nel verde, illuminato da vetrate enormi create
per dare la percezione di essere all'aperto e tuttavia in un luogo protetto, da
attraversare in estate e in inverno. La Piscina, progettata nel 1960, è
diventata un riferimento per la città, frequentata in tutte le stagioni per anni,
poi dismessa.
La vasca enorme degrada in profondità, punteggiata da tesserine a mosaico luminose.
Nella vuotezza c'è il ricordo del chiarore dell'acqua e del gioco di luce con
le vetrate. Sul lato corto e profondo del rettangolo campeggia un trampolino
affacciato al precipizio che un tempo guardava l'azzurro più intenso. Questa
pista di lancio per i corpi è una presenza struggente: immagino movimenti,
risa, cuffie, tuffi, schizzi d'acqua, una spensieratezza umana, naturale e,
allo stesso tempo, la geometria delle forme che si tendono e lanciano.
Intorno, gradinate dolci per stare a bordo acqua e più indietro, verso i
finestroni, spazi per stendere lettini e spugne morbide.
Sento l'eco dolce e umida uscire dalla vasca e rimbalzare ai vetri, forse
aperti d'estate, in un rimando tra le voci e l'acqua (dentro), i suoni della
natura (fuori).
L'edificio è circondato da alberi, fronde rigogliose, un intrico di foglie,
profumi, chiaroscuri: la forma della bellezza svelata e incorniciata dalle
vetrate, rifilate in ferro a richiamare un'aria belle époque e liberty.
La Piscina Gandini fa parte degli spazi espositivi
della Fondazione Giorgio Cini di Venezia ed è stata ristrutturata di recente.
In questo luogo arioso e sospeso nella laguna, è allestita la bellissima mostra
"In Nebula" del pittore franco-cinese Chu Teh-Chun, nato a Baitou Zhen nel
1920, morto a Parigi nel 2014.
La retrospettiva dedicata a questo incredibile artista è stata organizzata in
occasione della sessantesima Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale
di Venezia.
La mostra raccoglie circa cinquanta dipinti, è aperta fino al 30 giugno 2024, è
realizzata in collaborazione con la Fondazione CHU Teh-Chun ed è curata dallo
storico dell'arte Matthieu Poirier.
Il luogo è importante. Lo spazio, la luce, la
proporzione tra le opere e chi le guarda, sono elementi importanti. Per questo
mi soffermo sulla Piscina e su come è stato possibile inserire la mostra su più
piani.
Il grande e profondo scavo che un tempo accoglieva l'acqua è rimasto immutato,
così come sono immutate le sponde a gradoni per gli avventori e le vetrate
immense. Ma la possibilità di entrare nella piscina, scendere, salire,
attraversare, è resa da una complessa e splendida struttura in legno a palafitta,
poggiata sul fondo della vasca e spinta in su, verso la luce, da pali che
ricordano le bricole lagunari o, nell'immaginazione, i tronchi che sotto
l'acqua fanno emergere Venezia.
È in questo reticolo solido e tuttavia lieve che, tra un ponteggio e l'altro,
si snoda "In Nebula".
Attraverso lo spazio nel saliscendi armonico che guida
gli occhi dalle opere più recenti, a ritroso, fino ai primi lavori di Chu
Teh-Chun, realizzati a Parigi a partire dal 1955. Mi muovo tra le pareti
rivestite di tele immense, colori immensi, forme sfuggenti e immense.
È un artista definito "dell'astrattismo gestuale". L'espressione, un po'
criptica, si svela sulle tele, perché nel movimento dei colori diventa intuitivo
il gesto che anima l'artista.
Opere astratte, tutte riconducibili alle forme della terra, del cielo, del
mare, della natura, del lavorio umano, dei segni che rendono tale la vita.
Chu Teh-Chun aveva iniziato a dipingere in Cina, stimolato da una famiglia di
collezionisti d'arte, dunque immerso nelle forme, negli stili, nell'espressione
visiva. I suoi primi lavori in terra d'origine avevano tratti figurativi, ma
sono quasi tutti perduti. Le tracce di quelle figure restano nelle prime opere
realizzate in Francia.
La sua è un'arte tesa alla libertà, attratta dalle avanguardie della prima metà
del Novecento, per lui un terreno fertile sul quale stendere la visione del
mondo e dove disperdere il rigore del segno.
È una libertà conquistata. La vita di Chu Teh-Chun è costellata di spostamenti
e perdite: il padre muore durante un bombardamento giapponese, lui è costretto
all'esilio a Taiwan, non rivede più la madre. Quando arriva a Parigi, il gesto lentamente
si libera.
Passeggio a bordo piscina. Tra un pannello e l'altro
arriva la luce potente delle finestre a tutta altezza. Giro intorno, oscillo lo
sguardo tra le pareti esterne e la struttura al centro. Poi infilo l'ingresso
alla vasca e percorro la parte alta della palafitta, aiutata da ponticelli e
piccoli gradini.
Quello che colpisce in opere come "La Grâce de l'aurore" (2001) o "Le Point du
jour" (1988-89) è il modo in cui le forme si assorbono, si nebulizzano. Non c'è
nell'astrattismo di Teh-Chun alcuna frammentazione, non ci sono linee spezzate,
né idee di rottura. C'è invece una potente espansione, la sensazione che ogni
oggetto, orizzonte, profilo della natura o dell'uomo, dispieghi in volo la
libertà normalmente chiusa tra i confini degli oggetti.
È quella libertà che consente alle cose del mondo di incontrarsi, comprendersi,
toccarsi, senza che ciascuna perda la sua specialità. La libertà più bella, calda,
viva.
Seguendo questo pensiero, che è poi una sensazione,
muovo lo sguardo da una tela all'altra, una parete bagnata di luce all'altra, e
mi sento confortata, perché riconosco la rappresentazione di un mondo liberato
e messo a disposizione dell'umanità.
"Nature hivernale A" (1985) lancia l'inverno negli occhi, riveste ogni creatura
che guardi la tela di tutte le sensazioni che l'inverno può dare, senza limiti,
senza forme, eppure in tutta la sua corposità. Ed è così per "l'aurore "e per
"le jour", colti nella "grazia" e nel "punto", definiti nel loro divenire.
C'è un elemento che ricorre nella pittura di Teh-Chun, dà forza alle immagini
astratte e al senso di libertà: la sua prossimità alla scrittura, il complesso
sistema ideogrammatico della lingua cinese di cui, su consiglio del padre,
Teh-Chun impara anche la calligrafia corsiva. C'è un mondo racchiuso in ogni segno
grafico: idee, simboli, immagini, accostati diventano discorsi e narrano. Osservando
lentamente i dettagli sulle tele, si ha la sensazione che le storie emergano dalle
pennellate e dai colori.
Scendo lungo l'intreccio delle palafitte, verso il fondo della piscina e le
tele più datate. Nei primi anni parigini i segni del linguaggio scritto sembrano
più evidenti: "Le 8 juillet 1976", "Composition 228" (1966), fino ad arrivare a
"Sans titre" (1955), dove piccole figure umane vibrano sopra un fondo scuro; con
loro vibra una cascata di segni che si muovono scomposti in accenni di libertà.
L'avrebbe trovata.
Risalgo al bordo della piscina, lungo le vetrate. Ritrovo le tele degli ultimi anni, immense, inondate di luce, e capisco quanto Chu Teh-Chun sia riuscito nella sua lunga esistenza a vivere la libertà senza perdere le cose del mondo.
