“Closer to Vermeer”, ad Amsterdam

02.06.2023

L'aereo atterra ad Amsterdam con un po' di ritardo alle 22.
Penso alla prima volta qui, era il 2018, autunno. Ora è quasi estate ma c'è un freddo quasi uguale. Mi piace l'aria vetrosa, nitida, che si prende i pensieri, li muove e li fa leggeri e fini.
La prima volta davanti a una tela di Vermeer avevo il cuore in tumulto.
L'Olanda fluttuava sui suoi acquitrini, sottile, livellata dai venti del nord. Volevo soprattutto guardare la "Veduta di Delft", l'opera che preferisco, uno dei due esterni dipinti da Vermeer, o dei due che restano.
Non un esterno qualunque, il porto, preso sulla tela in una posa strana, irreale eppure quotidiana. Perché mai un artista olandese del XVII secolo, immerso in un tempo e un luogo movimentati, pragmatici e indaffarati, dovrebbe dipingere un porto deserto?
Se lo sono chiesti in tanti. Non mi alambicco, non sono esperta d'arte. So che davanti alla "Veduta di Delft" il cuore ha smottato. Una specie di folla silenziosa stava sopra i miei occhi e dentro: la distesa luminosa dell'acqua giù e del cielo su in cumuli arruffati; le navi poggiate dolcemente al pelo dell'acqua, pachidermi calmi e addormentati; la banchina obliqua, quasi deserta anche nel colore: due donne si attardano in chiacchiere come fossero al mercato, altre quattro figure (una con un bambino tra le braccia) poggiate per caso all'angolo sinistro, tutte estranee alla vita di una banchina portuale, eppure intente allo scambio; i colmi delle case poggiati tra acqua e cielo, le ombre a specchiarsi. Non c'è alcun dubbio che ogni linea e figura di questo quadro sia unita alle altre dalla luce.
Non pensavo a queste cose mentre nell'autunno 2018 al Mauritshuis dell'Aia (dove la tela risiede abitualmente) guardavo la "Veduta di Delft". In verità non pensavo a niente, sentivo solo il tumulto e sapevo che non sarebbe passato.
È così. Non è mai passata la bellezza. Anche solo a vederne l'immagine in un catalogo o sopra lo schermo di un computer. Ogni volta sale agli occhi l'esperienza accanto alla tela viva, vera, intrisa del colore e della luce di Vermeer.
Perciò, quando a febbraio 2023 il Rijksmuseum di Amsterdam ha allestito "Closer to Vermeer", la più grande esposizione di opere dell'artista di Delft mai realizzata, il tumulto si è rimesso a galoppare. Anche perché per trovare i biglietti c'è voluto del bello e del buono. A volte a starci dietro i sogni si realizzano (in questo caso, il 29 maggio).

"Veduta di Delft" (96,5x115,7 cm), Johannes Vermeer, 1660-1661, Muritshuis, L'Aia

Tra ritardo del volo e coincidenze dei treni, arrivo a Enkhuizen quasi a mezzanotte. Poco importa, sono in un punto della mappa bellissimo: una cittadina portuale nella regione della Frisia, cresciuta sulla baia che, tra anse e specchi, si apre al mare del nord. L'aria vetrosa entra tra le vie e i canali, sfiora le case (in diversi quartieri datano '500 e '600) cresciute in verticale mai oltre i tre piani, tenute da travi potenti, finestre ampie per prendere ogni raggio di sole e spruzzata di luce. Quella dell'amico che mi ospita è del 1592. Se fuori il vento spazza, dentro il legno ricompone i corpi, dà tregua agli occhi, scalda i pensieri che fuori si sono arruffati.
Domani ad Amsterdam, al Rijksmuseum, per Vermeer. Ma intanto sosto qui, tra pescatori, barche, nasse, mattoni rossastri e scuri e uno sbucare irriverente di fiori e piante aromatiche. Chi lo avrebbe detto, con il freddo che fa le rose sono in fiore, anche i gelsomini, le rive dei canali sono frondose e verdi, le foglie degli alberi vibrano e suonano di primavera. L'aria profuma.
Forse a Delft, dove Vermeer è nato e vissuto, c'è lo stesso trionfo. Nel 2018 ricordo i canali un po' blu e specchiati di case, le botteghe di ceramiche, il museo Vermeer che non ha alcun pezzo originale del pittore ma ricostruisce minuziosamente la sua vita e la sua opera. Faceva freddo ma dentro le case c'era un calore simile a questo.

Ventisei tele in mostra (27 fino al 30 marzo scorso, poi la "Ragazza con l'orecchino di perla" è andata ad altre destinazioni) su trentasette (35 più 2 attribuite a Vermeer). Probabilmente ne aveva dipinte il doppio, ma sono perdute. Di questo fiammingo nato nel 1632 e morto nel 1675 resta un pugno di tele, quasi tutte di piccole dimensioni, qualche eccezione ma senza grandi misure. Raffigurano per lo più interni, stanze confortevoli, gesti quotidiani: l'intimità di uno studiolo, l'armonia di un soggiorno con spinetta o scrittoio, finestre dalle quali entra luce che arriva ai drappeggi, agli abiti, ai volti di donne intente.
Eppure, a guardare le pennellate stese in pochi centimetri ci si perde. Le scene di vita sono dense di dettagli e semplici, minime. Ad avere spazio e tempo, ogni quadro va preso a distanze diverse, da posizioni e angoli per capire l'ampiezza della scena, il racconto annodato dai colori e dalla luce. C'è sempre un punto sul quale prima di tutto Vermeer porta il nostro sguardo; ogni tela ha un oggetto, un gesto che calamita gli occhi: una lettera, la posa di una mano, un calice che brilla, il punto luce sopra una perla, il taglio sull'orizzonte o su un edificio. Qualunque posizione abbiano, questi dettagli sono fulcri dai quali si muove lo sguardo. Sembrano semplici ma non lo sono perché inducono i sensi e i pensieri a mille domande.
Vermeer aveva una tecnica particolare, nel gioco e nelle dosi dei colori, nel dare ampiezza e visibilità a oggetti e a dettagli minuziosi. Ma vanno cercati con perizia, con sguardo attento e aperto. Bisogna osservare le minuzie, i punti luce, le pennellate di bianco: corpose, ma più spesso puntiformi, capaci di dare forza e stravolgere l'intero spessore della scena e delle figure.
"La stradina" (o "La strada di Delft", appena 54,3x44 cm) prende luce dai dettagli dei bianchi stesi sugli architravi, puntinati su mattoni e arrotondati sulle cuffie delle tre piccole donne intente.
Forse è ridondante ricordare che il dipinto più celebrato (complici un libro e un film), "La ragazza con l'orecchino di perla" (44,5x39 cm, anche lui di casa al Mauritshuis dell'Aia) prende luce dalla punteggiatura bianca della perla, delle sclere degli occhi, del colletto a fascia e dall'accenno bianco sulle labbra carnose. Ed è così per tutte le figure femminili (tante nei dipinti di Vermeer): immerse in ambienti ombrosi, sono illuminate dalla luce che colpisce i dettagli, un gioco, un inganno che l'artista creava con la sua personalissima tecnica del bianco.
"La lattaia" (45,5x41 cm) è dirompente. In una cucina spoglia eppure avvampata di calore, una giovane donna versa da una brocca il latte. Il prezioso blu di lapislazzuli che Vermeer frammentava e impastava, si appoggia agli ocra del corpetto, del pane nella cesta e sul bancale, al marrone un po' rubino delle terrecotte. Questa intensità corposa e a tratti cupa, brilla intorno al filo di latte bianco che lentamente cola, aiutato dal bianco opalescente sulla cuffia al capo inclinato della ragazza e dal colletto stretto alla maniera del tempo.
Il Seicento di Vermeer è distante anni luce da quello che trionfa nel resto d'Europa. Gode di un minimalismo lontanissimo dall'abbondanza. Ma in questa essenzialità, prendono vita una luce e un calore inarrestabili, e con loro una storia imperscrutabile.

"La lattaia" (45,5x41 cm), Johannes Vermeer, 1658-1659, Rijksmuseum, Amsterdam

Di Jan Vermeer si sa poco. Quasi nulla del suo temperamento. Diversi dettagli della vita in cui era immerso: una moglie, quattordici figli, una suocera (Maria Thins) tenutaria dei suoi affari. Era lei ad amministrare ogni cosa, anche la compravendita dei quadri. Vermeer ha presieduto la Gilda di San Luca a Delft, la corporazione degli artisti, ma rimane un mistero gran parte della sua breve vita. A soffermarsi sulle poche notizie, viene da chiedersi come vivesse l'equilibro tra il quotidiano gravoso (famiglia numerosa, debiti) e la lievità delle sue tele.
Forse prendeva forza proprio dai gesti concreti, dai dettagli: donne che leggono, scrivono lettere, suonano, bevono, conversano; uomini che le circondano o che, solitari, riflettono di geografia e astronomia (magnifico in mostra "Il geografo", 51,6x45,4 cm). Eppure, dentro la normalità del giorno c'è sempre un punto insondabile, una voragine che si apre agli occhi e all'immaginazione.
Non sono lucida nel raccontare "Più vicino a Vermeer". Devo dire che poco mi importa. Tanto più che da tempo l'innamoramento ha preso la forma dell'amore e dunque, anche se visitare la mostra al Rijksmuseum è stata un'impresa (poca armonia e troppa congestione nel flusso di persone, acrobazie per arrivare dritti davanti ai quadri, illuminazione sulle tele non calibrata), stare davanti a ventisei opere di Vermeer appaga il sentimento.

Torno a Enkhuizen. Il giorno dopo il cielo si è arruffato, il vento è più forte e l'aria limpida. Andiamo al porto a guardare in silenzio la covata degli svassi. Stanno appartati lungo una teoria di canneti sospesi al pelo d'acqua. Sono tranquilli, vicini senza timori, alcuni hanno già i pulcini che zampettano intorno alle madri. Sul lato opposto, righe di barche fitte stanno all'ormeggio scosse dal vento; c'è un marinaio, viso bello maturo e ruvido, che armeggia su una barca a vela; stringe corde, mette in sicurezza. Gli svassi sono a pochi passi, al riparo delle canne.