Con più respiro e pensieri su A. B. Guthrie

31.03.2023

Immersa nella lettura di A. B. Guthrie, sono entrata nel mondo selvaggio, pieno di natura umana e animale, dei suoi romanzi. Il viaggio è in corso, per fortuna. Per fortuna ho ancora da leggere e assaporare.
Sono nel guado della quadrilogia dell'autore ("Il grande cielo", "Il sentiero del West", "Queste mille colline", "Dolce, dolce terra", per l'editore Mattioli 1885, curati e tradotti da Nicola Manuppelli), capace di stendere gli occhi sulle immense praterie d'America, sui percorsi sterrati e brulli, sui picchi quasi inaccessibili e i boschi primitivi, dove si addentrano viaggiatori alla ricerca di orizzonti.
È l'ovest lontano un paio di secoli. Un on the road selvaggio che a leggerlo si apre il respiro.

Una delle sensazioni più forti tra le pagine di Guthrie è la vitalità allo stato brado di uomini e bestie; anche la natura è brada e lo sono i pensieri. Una vita né facile né auspicabile, non per l'immaginario del terzo millennio. Eppure, le storie di Guthrie hanno la freschezza del mattino; la sorprendente bellezza della libertà a passo d'uomo. Se ho impropriamente accostato queste letture avventurose ad un cammino moderno e vacanziero fatto senza la necessità di sopravvivere (ne: Il grande sentiero di pochi giorni fa), è perché mi pare sia una necessità tutta umana quella di intravvedere la dimensione essenziale della vita.

"Il grande cielo", primo dei romanzi in questione, dalle pagine iniziali mette il lettore nelle condizioni di faticare e sentire l'affanno dei personaggi. Boone fugge di casa e il suo viaggio diventa ragione di vita: conquistare uno spazio e il diritto di esistere.
Guthrie entra in un mondo ruvido e primario fatto di uomini e donne in piena conquista, in piena solitudine e scoperta. Soprattutto li connette strettamente alla terra selvaggia, aspra almeno quanto la civiltà dell'America ad ovest di tutto, fatta di coloni, carovane e consorzi umani che provavano a suon di ingiustizie ad essere comunità, paesi, città.
Il tocco narrativo di Guthrie va molto oltre, perché la vitalità brada che racconta prende vita grazie alla sua capacità di descrivere i passaggi minuti (i dettagli di un bivacco, di un fuoco che crepita, di un fucile lucente, di un animale che si fa strada al galoppo o a passo lento) e i passaggi immensi e distanti (i cieli inarrivabili, la luce, la notte). Queste minuterie narrative, unite ai grandi orizzonti, danno un respiro inaspettato alla fatica, alla conquista, al viaggio necessario per esistere.

"Il vento continuò per tutto il giorno e stava ancora soffiando quando riprese il cammino, la mattina seguente, dopo essersi accampato da solo e aver mangiato un pezzo di carne che Harvey gli aveva dato. Il tempo scorreva così lento che quasi ci si convinceva che si fosse fermato. Il sole si levò appena nel cielo orientale, splendendo sulla schiena di Jim, e si fermò lì come se temesse di affrontare il vento. La pianura gli si srotolava lentamente davanti, andando quasi con stanchezza a raggiungere le montagne che si stagliavano lontano a occidente, contro il cielo. Il cavallo si muoveva a passo lento, calpestando ogni tanto qualche filo d'erba o delle pietre disseminate qua e là, tenendo il muso basso, con un oceano d'erba davanti a sé e tante pietre da farne un monte. In lontananza, due cani della prateria si inseguivano; un maschio e una femmina probabilmente, che stavano per farsi una famiglia.
A poco a poco le ombre si accorciarono e si ridussero a nulla e poi, lentamente, cominciarono a puntare nella direzione opposta. Il vento ora si limitava a pochi strascichi che si inseguivano soffiando. Quando il sole calò, anche quegli ultimi strascichi erano spariti. Un crepuscolo immobile si adagiò sul mondo, facendosi sempre più scuro fino a diventare notte". ("Il grande cielo", pag. 378).

Lo sguardo soprattutto. Quando leggiamo vediamo un paesaggio che si raccoglie tutto intero dentro di noi. Accade sempre con le parole. I romanzi di Guthrie però hanno la potenza degli affreschi. Sono fatti di immagini pure, cristalline.
Forse non è un caso che due dei suoi romanzi siano diventati film: "Il grande cielo" di Howard Hawks del 1952 e "La via del West" di Andrew V. McLaglen del 1967 (da "Il sentiero del West"). E non è un caso che Guthrie abbia scritto i soggetti e le sceneggiature di diversi altri film sull'epopea western, tra cui "Il cavaliere della valle solitaria" di George Stevens, con Alan Ladd, Jean Arthur e Van Heflin (1953) e "Il kentuckiano" di e con Burt Lancaster (1955).
Uomini solitari e spessi, indiani domati o incattiviti, carovane polverose, donne forti spesse anche loro. Tutti attraversano terre ricche ma da addomesticare come i branchi di animali, come le prede nelle alture, le praterie immense ma desolate.
Le ragioni nei romanzi di A. B. Guthrie stanno in ogni creatura, umana e no. In chi conquista e in chi difende, in chi prende e in chi soccombe.
La sensazione di una vita brada, ad un tempo giusta e ingiusta, al limite della sopravvivenza, mi riporta all'essenziale, e ai gesti minimi che da soli bastano a fare un'esistenza.

"Gli sembrava di vederli, carro dopo carro, carovana dopo carovana, risalire il Platte, procedere faticosamente su per le montagne, guadare i fiumi indomiti. Alcuni si sarebbero ammalati, altri sarebbero morti, ma la maggioranza della compagnia avrebbe proseguito, perché l'obiettivo era più grande di qualsiasi dolore. Quel confine immaginario catturava l'immaginazione dell'uomo. Lo riempiva di meraviglia. Lo faceva sentire in qualche modo grande.
Toccò Nellie con il tallone, e la cavalla alzò la testa come per controllare che fosse un gesto intenzionale, poi si rimise a pascolare e lui la lasciò fare. In fondo non era la caccia il motivo reale per cui era andato a fare quell'escursione.
Una nuova epoca, pensò. La storia scritta sulla terra attraverso i solchi dei carri. Una nuova meravigliosa epoca per tutti tranne che per uomini come Summers, che non riuscivano a provare lo stesso entusiasmo. Quelli come lui erano fatti in modo diverso, plasmati al di là di ogni cambiamento da attrezzi che ormai non esistevano quasi più, da castori, indiani, pericoli e solitudine. Erano come bevitori incalliti la cui sete era rivolta sempre al bicchiere successivo e mai a quello appena bevuto". ("Il sentiero del West", pag. 270).