Continuo ad inciampare su Luciano Bianciardi

A Venezia (Sestiere San Polo), qualche settimana fa, ha
aperto una libreria Feltrinelli.
Ci sono entrata per caso proprio nel giorno di apertura. Sta in una zona
tranquilla, è relativamente piccola (tre stanze di dimensioni contenute), un
divano giallo oro nel locale più appartato e raccolto. Alle pareti, scaffali
con una quantità di libri affrontabile. L'aria è da piccola libreria, angolo
tranquillo, libri per tutti i gusti, anche in lingua (Venezia è piena di
mondo), un buon settore di saggistica, cosa che mi ha sorpreso felicemente,
dando al punto vendita un che di ricercato, poco turistico, da godere insomma.
Pochi minuti e lo sguardo è caduto su "Non leggete i libri, fateveli
raccontare" di Luciano Bianciardi (Neri Pozza, 2022), un libretto agile dal titolo
irriverente. Un testo guizzante, scontroso, felice che Bianciardi ha scritto in
sei puntate per il settimanale ABC nel 1966.
Quel giorno ho segnato così il mio ingresso in libreria.
Ho cominciato ad amare Bianciardi qualche anno fa. I suoi libri sono in tutto e
per tutto il suo rapporto con il mondo. Un rapporto arrabbiato, deluso, insofferente
quasi a tutto, di certo ad ogni perimetro tracciato, ogni regola determinata,
qualunque ortodossia, sistema, fede.
Leggendo si inciampa di continuo su schemi rotti, pensieri appesi a lame
fiammanti e taglienti, fuga da definizioni, teoremi, consolazioni.
Da quando l'ho incontrato sulla via, ho continuato ad inciampare su Bianciardi.
Anche senza aprire i suoi libri di continuo ("Non leggete i libri, fateveli
raccontare", e soprattutto in ordine di anno: "Il lavoro culturale" 1957,
"L'integrazione" 1960, "La vita agra" 1962), il suo pensiero, il modo di porsi,
di non stare al posto, di non averlo neppure un posto, tutto mi arriva addosso ad
ondate periodiche e anomale. Il chiacchiericcio che di continuo sento e leggo
su qualsiasi argomento, la veemenza con la quale pensieri e parole escono dalle
migliaia di teste che, di continuo, sentono il bisogno impellente di dire la
loro su qualsivoglia argomento, dalla politica al cambiamento climatico, dalla
letteratura al cinema, dalla fisica alla politica (politica l'avevo già detto,
ma repetita iuvant). Tutto questo mi fa inciampare su Bianciardi non per
analogia ma per opposizione. Perché è vero, verissimo che lui è stato un
urlatore, uno profondamente arrabbiato, incazzato con la società, il mondo, i
sistemi di pensiero, le etichette, le omologazioni, ma è soprattutto vero che
urlava a proposito. Urlava dalla posizione di chi il mondo, nello specifico il
mondo culturale e sociale, lo conosceva bene, perché ci era immerso con tutto sé
stesso. E pur essendo immerso tentava disperatamente di riemergere, di uscire e
respirare. La sua critica, la sua forza verbale, sono critica e forza
intellettuale, ma anche di uomo che sperimenta sulla pelle quotidianamente la
follia di vivere, comunicare, stare al mondo, sopravvivere.
Perciò, ogni volta che accendo i neuroni su riflessioni, dibattiti,
confronti di questo tempo, ho uno smottamento, un senso di profondo sconforto,
in preda alla sensazione che, chi parla, non sa neanche lontanamente di cosa
sta parlando. Allora penso a Luciano Bianciardi, alla sua vita agra, all'amaro
che sentiva in sé e nel mondo, e lo diceva, forte, limpido, crudo.
Quando nel suo "Non leggete i libri, fateveli raccontare" incalza in sei puntate
gustosissime il giovane aspirante intellettuale, gli suggerisce un lungo
decalogo di misure, atteggiamenti, scelte, studi, da NON fare. In un meraviglioso
processo di negazione della conoscenza, invita il "Nostro" (così lo chiama) a
divagare, ad accostare tutto senza fare nulla, a presumere e far presumere, a dare
l'idea di un sé vago ma compiuto.
Quasi un pamphlet (forse potrei togliere il quasi) che sulla traccia di una
polemica divertita e divertente, permette di ritrovare tutto l'agro accorpato,
profuso, disperatamente impastato in quella che viene chiamata la trilogia
della rabbia, i tre romanzi citati prima ("Il lavoro culturale",
"L'integrazione", "La vita agra", raccolti anche in unico volume da
Feltrinelli).
Leggendo il piccolo saggio, non solo ritroviamo lo stile meraviglioso di
Bianciardi (vivace, ruvido, liscio come olio, tagliato come diamante, denso di
rabbia e malinconia) ma anche tutti i motivi della sua inquietudine. La sottile
linea che da Grosseto lo ha portato a Milano, la ricerca di una vita e di un
senso davvero intellettuale, profondamente attaccato alle parole; parole che
portano ad oggetti concreti e a gesti concreti. Non un parlare addosso, ma un
parlare al mondo.
Ecco, manca molto, moltissimo il pensiero di Luciano Bianciardi, il suo stare nel
pensiero e nelle cose. Lui, che si diceva anarchico e lo era. Lo era nel
respiro, senza implicazioni politiche, ideologiche, sistematiche, movimentiste
(appena si dà sistemazione a questo concetto, per me, già lo si tradisce).
Non mi cimento qui a riportare la vita meravigliosa, cattiva, disperata, breve di
Luciano Bianciardi, meglio leggerlo: i romanzi, i saggi, gli articoli (ne ho di
strada da fare). E meglio leggere anche chi lo ha seguito e amato, partendo dal
bellissimo "Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano" di Pino
Corrias (Feltrinelli), uscito nel 1993, poi rivisto dall'autore e rieditato nel
2011. Ci sono poi due volumoni usci di recente: nel 2018 "Il cattivo profeta"
(Il Saggiatore) che raccoglie romanzi, racconti, saggi e diari; e, nel 2022
(per i cento anni dalla nascita), "Tutto sommato. Scritti giornalistici
1952-1971", a cura di Michele Serra (ed. ExCogita), lavoro ciclopico su Bianciardi
giornalista (economicamente impegnativo, ma prima o poi magari ci arrivo).
"Il mio viaggio cominciò per caso a Milano, da un nome che
condusse a un libro su una bancarella e poi a uno spiraglio. Lo spiraglio
rivelò un mondo. Il mondo di Luciano Bianciardi che si era dissolto tra libri
introvabili, amici dispersi, racconti mai narrati. E da quel mondo riemerse la
sua avventura che ne intrecciava tante altre, dalla ricostruzione all'infatuazione
neocapitalistica, dalla provincia dei braccianti al vetrocemento dei
grattacieli milanesi, e poi l'industria culturale, la politica, il '68, tutto
filtrato dalla luce della sua radiosa impazienza, ma anche dalla debolezza
delle sue rinunce. Fino al buio della solitudine finale, mentre a Milano, di
sera, scendeva ancora la nebbia.
In quella nebbia Luciano Bianciardi arrivò giovane e anarchico (alla maniera
maremmana), fece la sua bohème in Brera, tra artisti, fotografi e conti da
pagare, sgobbò da traduttore a cottimo, inventò libri, digerì pasti in
trattoria e delusioni anche politiche. Trovò, infine, la sua traiettoria di
narratore. E addirittura un po' di fama per quella "vita agra" che aveva masticato
e seppe restituire, in forma di romanzo, facendone "la storia della
diseducazione sentimentale al tempo del miracolo economico", scagliando le
parole dell'invettiva contro i cristalli della nuovissima industria culturale e
di tutte le altre industrie che lavoravano l'acciaio e l'anima, che scandivano
i tempi nuovi del neocapitalismo e poi anche dell'alienazione". (Pino Corrias, "Vita
agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano", Feltrinelli, 2011, pag.
10).