Continuo ad inciampare su Luciano Bianciardi

15.09.2023

A Venezia (Sestiere San Polo), qualche settimana fa, ha aperto una libreria Feltrinelli.
Ci sono entrata per caso proprio nel giorno di apertura. Sta in una zona tranquilla, è relativamente piccola (tre stanze di dimensioni contenute), un divano giallo oro nel locale più appartato e raccolto. Alle pareti, scaffali con una quantità di libri affrontabile. L'aria è da piccola libreria, angolo tranquillo, libri per tutti i gusti, anche in lingua (Venezia è piena di mondo), un buon settore di saggistica, cosa che mi ha sorpreso felicemente, dando al punto vendita un che di ricercato, poco turistico, da godere insomma.
Pochi minuti e lo sguardo è caduto su "Non leggete i libri, fateveli raccontare" di Luciano Bianciardi (Neri Pozza, 2022), un libretto agile dal titolo irriverente. Un testo guizzante, scontroso, felice che Bianciardi ha scritto in sei puntate per il settimanale ABC nel 1966.
Quel giorno ho segnato così il mio ingresso in libreria.

Ho cominciato ad amare Bianciardi qualche anno fa. I suoi libri sono in tutto e per tutto il suo rapporto con il mondo. Un rapporto arrabbiato, deluso, insofferente quasi a tutto, di certo ad ogni perimetro tracciato, ogni regola determinata, qualunque ortodossia, sistema, fede.
Leggendo si inciampa di continuo su schemi rotti, pensieri appesi a lame fiammanti e taglienti, fuga da definizioni, teoremi, consolazioni.
Da quando l'ho incontrato sulla via, ho continuato ad inciampare su Bianciardi. Anche senza aprire i suoi libri di continuo ("Non leggete i libri, fateveli raccontare", e soprattutto in ordine di anno: "Il lavoro culturale" 1957, "L'integrazione" 1960, "La vita agra" 1962), il suo pensiero, il modo di porsi, di non stare al posto, di non averlo neppure un posto, tutto mi arriva addosso ad ondate periodiche e anomale. Il chiacchiericcio che di continuo sento e leggo su qualsiasi argomento, la veemenza con la quale pensieri e parole escono dalle migliaia di teste che, di continuo, sentono il bisogno impellente di dire la loro su qualsivoglia argomento, dalla politica al cambiamento climatico, dalla letteratura al cinema, dalla fisica alla politica (politica l'avevo già detto, ma repetita iuvant). Tutto questo mi fa inciampare su Bianciardi non per analogia ma per opposizione. Perché è vero, verissimo che lui è stato un urlatore, uno profondamente arrabbiato, incazzato con la società, il mondo, i sistemi di pensiero, le etichette, le omologazioni, ma è soprattutto vero che urlava a proposito. Urlava dalla posizione di chi il mondo, nello specifico il mondo culturale e sociale, lo conosceva bene, perché ci era immerso con tutto sé stesso. E pur essendo immerso tentava disperatamente di riemergere, di uscire e respirare. La sua critica, la sua forza verbale, sono critica e forza intellettuale, ma anche di uomo che sperimenta sulla pelle quotidianamente la follia di vivere, comunicare, stare al mondo, sopravvivere.
Perciò, ogni volta che accendo i neuroni su riflessioni, dibattiti, confronti di questo tempo, ho uno smottamento, un senso di profondo sconforto, in preda alla sensazione che, chi parla, non sa neanche lontanamente di cosa sta parlando. Allora penso a Luciano Bianciardi, alla sua vita agra, all'amaro che sentiva in sé e nel mondo, e lo diceva, forte, limpido, crudo.
Quando nel suo "Non leggete i libri, fateveli raccontare" incalza in sei puntate gustosissime il giovane aspirante intellettuale, gli suggerisce un lungo decalogo di misure, atteggiamenti, scelte, studi, da NON fare. In un meraviglioso processo di negazione della conoscenza, invita il "Nostro" (così lo chiama) a divagare, ad accostare tutto senza fare nulla, a presumere e far presumere, a dare l'idea di un sé vago ma compiuto.
Quasi un pamphlet (forse potrei togliere il quasi) che sulla traccia di una polemica divertita e divertente, permette di ritrovare tutto l'agro accorpato, profuso, disperatamente impastato in quella che viene chiamata la trilogia della rabbia, i tre romanzi citati prima ("Il lavoro culturale", "L'integrazione", "La vita agra", raccolti anche in unico volume da Feltrinelli).
Leggendo il piccolo saggio, non solo ritroviamo lo stile meraviglioso di Bianciardi (vivace, ruvido, liscio come olio, tagliato come diamante, denso di rabbia e malinconia) ma anche tutti i motivi della sua inquietudine. La sottile linea che da Grosseto lo ha portato a Milano, la ricerca di una vita e di un senso davvero intellettuale, profondamente attaccato alle parole; parole che portano ad oggetti concreti e a gesti concreti. Non un parlare addosso, ma un parlare al mondo.
Ecco, manca molto, moltissimo il pensiero di Luciano Bianciardi, il suo stare nel pensiero e nelle cose. Lui, che si diceva anarchico e lo era. Lo era nel respiro, senza implicazioni politiche, ideologiche, sistematiche, movimentiste (appena si dà sistemazione a questo concetto, per me, già lo si tradisce).
Non mi cimento qui a riportare la vita meravigliosa, cattiva, disperata, breve di Luciano Bianciardi, meglio leggerlo: i romanzi, i saggi, gli articoli (ne ho di strada da fare). E meglio leggere anche chi lo ha seguito e amato, partendo dal bellissimo "Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano" di Pino Corrias (Feltrinelli), uscito nel 1993, poi rivisto dall'autore e rieditato nel 2011. Ci sono poi due volumoni usci di recente: nel 2018 "Il cattivo profeta" (Il Saggiatore) che raccoglie romanzi, racconti, saggi e diari; e, nel 2022 (per i cento anni dalla nascita), "Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952-1971", a cura di Michele Serra (ed. ExCogita), lavoro ciclopico su Bianciardi giornalista (economicamente impegnativo, ma prima o poi magari ci arrivo).

"Il mio viaggio cominciò per caso a Milano, da un nome che condusse a un libro su una bancarella e poi a uno spiraglio. Lo spiraglio rivelò un mondo. Il mondo di Luciano Bianciardi che si era dissolto tra libri introvabili, amici dispersi, racconti mai narrati. E da quel mondo riemerse la sua avventura che ne intrecciava tante altre, dalla ricostruzione all'infatuazione neocapitalistica, dalla provincia dei braccianti al vetrocemento dei grattacieli milanesi, e poi l'industria culturale, la politica, il '68, tutto filtrato dalla luce della sua radiosa impazienza, ma anche dalla debolezza delle sue rinunce. Fino al buio della solitudine finale, mentre a Milano, di sera, scendeva ancora la nebbia.
In quella nebbia Luciano Bianciardi arrivò giovane e anarchico (alla maniera maremmana), fece la sua bohème in Brera, tra artisti, fotografi e conti da pagare, sgobbò da traduttore a cottimo, inventò libri, digerì pasti in trattoria e delusioni anche politiche. Trovò, infine, la sua traiettoria di narratore. E addirittura un po' di fama per quella "vita agra" che aveva masticato e seppe restituire, in forma di romanzo, facendone "la storia della diseducazione sentimentale al tempo del miracolo economico", scagliando le parole dell'invettiva contro i cristalli della nuovissima industria culturale e di tutte le altre industrie che lavoravano l'acciaio e l'anima, che scandivano i tempi nuovi del neocapitalismo e poi anche dell'alienazione". (Pino Corrias, "Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano", Feltrinelli, 2011, pag. 10).