Caproni sulla poesia

Quando ho preso tra le mani questo libriccino, un po' per la copertina ruvida e ambrata, ma soprattutto per le pagine all'interno, mi sono sentita in un altro tempo. Ho dovuto tagliarle col tagliacarte. Una ad una. Erano con le pieghe sigillate, dando l'idea da dove nasce un libro, da un grande foglio ripiegato. Poi, a sfogliarlo, c'è poco da leggere. Corre via in qualche momento, ma resti lì a pensarci e a maneggiarlo. Perché ti sembra di essere stato al Teatro Flaiano di Roma, dove Giorgio Caproni, il poeta, ha tenuto una conferenza il 16 febbraio 1982. Doveva parlare di una sua poesia "Parole (dopo l'esodo) dell'ultimo della Moglia". Ma lo ha detto subito che non è un critico, che casomai un critico critica le poesie degli altri. E così, dopo aver letto la poesia, ha parlato non di questa, ma di tutta la poesia, non la sua, ma della poesia come forma, come "...matrice di una serie pressoché infinita di significati armonici. Dico armonici nel senso che si dà alla parola nella fisica e nella musica". C'è un linguaggio di normale comunicazione e c'è il linguaggio poetico. E non è la stessa cosa incidere un gesto con parole messe in un modo o in un altro. In un caso il gesto è pratico, nell'altro diventa un brivido che scende in profondità. Perché, "Il poeta è un minatore, è poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerías del alma. E lì attingere quei nodi di luce che sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se pochi ne hanno coscienza". Le ho tastate a lungo le pagine ruvide, tagliate a lama una ad una, e le tasto ancora.