Dal mondo nuovo a Netflix

La meccanica delle immagini in movimento ha poco più di un
secolo, se escludiamo gli antenati fatti di lanterne magiche (dal '600 in poi)
e una miriade di meravigliosi apparecchi apparsi soprattutto lungo tutto l'800:
dal mondo nuovo, ai vari: fenachistoscopio, stereoscopio, zootropio,
prassinoscopio, kinetoscopio… tutti prodigi per regalare allo sguardo il
movimento di immagini fisse. Se escludiamo la lanterna magica (nelle sue diverse
evoluzioni settecentesche), tutte queste macchine "scopiche" erano concepite
per una visione individuale: un marchingegno per uno spettatore.
Si sa, lo scatto in avanti del cinematografo è dare vita alla visione
collettiva, a un'idea nuova e meravigliosa di socialità, dove il pubblico,
riunito in un luogo silenzioso e buio, assiste all'unisono ad un evento, un
racconto per immagini in movimento che ha un prologo, uno svolgimento e un
epilogo. Spettatori che, nella condivisione, empaticamente partecipano al
flusso delle immagini.
Non è una lezione di cinema, per carità, ce n'è tante in giro e di autorevoli.
È una premessa a volo d'uccello per planare nel mondo di oggi.
Ed è strano perché, se il cinema ha macinato 128 anni di spettacolo collettivo
(dal 28 dicembre 1895 al Salon indien du Grand Café del Boulevard de Capucines
a Parigi, con il brevetto dei Fratelli Lumière), oggi, alle prese con una
visione cinematografica sempre più in crisi e con la necessità di inventare
forme, luoghi, situazioni, abbonda un'idea di visione filmica sempre più contratta,
sempre più votata alla solitudine, all'esperienza individuale o comunque per
pochi intimi. Un movimento che sembra portare indietro lo sguardo e gli animi,
in una sorta di inversione della socialità.
La serialità televisiva e ancor più la serialità on demand, riporta il nostro
sguardo dentro i confini di un apparecchio individuale (televisore, pc,
smartphone); una mono visione che però (a differenza dei vari -scopi dei secoli
passati) è dedicata alla collettività: il pubblico in massa c'è (una massa
enorme) ma è fatto di persone sole. E poi, esattamente come in pieno Ottocento,
solamente dopo la visione ogni spettatore può (se vuole) interagire con chi
come lui ha sperimentato il mezzo e il contenuto.
Certo, facciamo tutti i debiti distinguo. Due secoli fa non c'era la serialità
narrativa (non visivamente), e non c'era alcuna tecnologia in grado di
connettere le persone, la rete era quella del telegrafo, poi del telefono, e
non esisteva un flusso di contenuti e di scambi come lo concepiamo oggi.
Nonostante questo, tengo fermo il paragone. Perché la visione solitaria ha
regole inviolabili: quelle di un tempo scelto, dedicato, assaporato (per minuti
o per ore, non importa), vedendosela con se stessi.
A me Netflix, Prime Video, Sky, Disney+, Apple Tv, Chili, Mubi, ecc., ricordano
il mondo nuovo, lo zootropio e tutte le altre macchine "scopiche" antenate del
cinema. Forse sto bestemmiando.
Ma il punto è che, quando si ha un'attrazione fatale per le storie in
movimento, si trova il bello e il senso in ogni visione.
Il cinema nella sala è e resta per me la visione delle visioni,
l'impareggiabile esperienza dell'immaginario, del cuore, dei pensieri e
dell'animo. Ci sono cresciuta grazie a mio padre, al suo contagio immaginifico;
poi, un po' per volontà un po' per caso, è diventato umilmente il mio lavoro. Spero
con tutta me che nel tempo il cinema trovi vie, luoghi, forme per non sparire dallo
schermo grande, dal buio in sala, ad avvolgere molti sguardi riuniti e mai
soli.
Ma ci sono le serie, nelle quali l'industria visiva ha concentrato alla massima
potenza le energie e i capitali, stagione dopo stagione.
Le serie però nascono in pieno Novecento. Allora li chiamavamo telefilm, oppure
sceneggiati. Non cambia molto, penso a "Star Trek" (nato negli anni '60, USA,
evoluto e declinato poi in film seriali e in nuove serie), oppure "Spazio 1999"
(anni '70, telefilm britannico) o "Mork e Mindy" (a scavalco tra gli anni '70 e
'80, USA); o a tanti sceneggiati italiani: da "I promessi sposi", 1967, con Nino
Castelnuovo e Paola Pitagora, a "Le inchieste del commissario Maigret",
1964-1972, con il mitico Gino Cervi, o ancora "La cittadella", 1964, tratto dal
romanzo di Cronin, con Alberto Lupo e Anna Maria Guarnieri.
Sembra ci sia un abisso tra queste immagini lontane e quelle di "Sons of
Anarchy", "Bordertown", "Breaking Bad", "La casa di carta", "Dark", "Jack
Ryan", "New Amsterdam", "The Crown", "Bridgerton" (e il delizioso prequel "La
regina Carlotta"), "Borgen", o di tante altre serie.
Invece trovo ci sia un filo sottile e costante a tenerle insieme, un filo
temporale, dove a cambiare sono le ambientazioni, il ritmo, la tecnologia, i
contesti sociali e culturali, ma identico è il meccanismo: una storia a puntate
costruita sull'attesa di quel che accade dopo, dove i personaggi prendono
carattere, cambiano, scompaiono, tornano, diventano per lo spettatore punti di
riferimento. E le immagini sono pagine da sfogliare come nei romanzi
d'appendice.
Pubblicato su remweb.it il 25.07.2023
Immagine: funzionamento del fenachistoscopio; Gaston Tissandier, Les récréations scientifiques, Parigi, 1884