“Il secolo nomade” di Gaia Vince

Ciò che ricade costantemente sotto il nostro sguardo quasi
sempre diventa sfondo. Quello che vediamo abitualmente, tende a perdere di
importanza, a scolorire. Per gli esseri umani (e i viventi in generale)
l'abitudine è una strategia di sopravvivenza, un modo per catalogare, dare un
ordine alle cose, sistematizzare i valori e la vita stessa.
Questo pensiero si è dilatato dentro di me durante la lettura
di "Il secolo nomade. Come sopravvivere al disastro climatico" di Gaia Vince,
appena uscito per Bollati Boringhieri.
L'attrazione a leggerlo è arrivata quando ho visto l'annuncio
dell'uscita insistere su questo concetto:
"la migrazione non è il problema: è
la soluzione".
Un altro motivo di attrazione (oltre al tema del libro in sé: i cambiamenti climatici e gli orizzonti possibili) è stata la notizia che l'autrice lo presenterà il 21 maggio, all'interno del Salone Internazionale del Libro di Torino, con (tra gli altri) Telmo Pievani. Ho pensato che sarà davvero un momento di pienezza, ricchezza di visioni e linguaggi. Gaia Vince è giornalista scientifica e ricercatrice onoraria al University College London, autrice di molti saggi scientifici e vincitrice del Royal Society Science Books Prize nel 2015; Telmo Pievani insegna Filosofia delle scienze biologiche all'Università di Padova ed è autore di innumerevoli testi, mi piace ricordare "Viaggio nell'Italia dell'Antropocene. La geografia visionaria del nostro futuro" (Edizioni Aboca), scritto con il geografo Mauro Varotto, e decisamente sulla linea del "Secolo nomade".
Come per tutte le cose sulle quali la comunicazione dei
nostri tempi insiste, rimbomba ad ogni angolo la parola antropocene. Per la precisione epoca dell'Antropocene, quella nella quale l'umanità è entrata.
L'umanità siamo noi. Tutti. Penso la cosa ci riguardi dentro
e anche al di là delle nostre singole vite.
Per questo "Il secolo nomade" è un libro importantissimo.
Perché quell'intorno nel quale ci muoviamo e che sta sotto i nostri occhi
sempre, è il mondo, la Terra. Non un'astrazione della mente, non un pensiero
filosofico, una categoria. È proprio il pianeta che dà ragione al nostro
esistere e senza il quale nessuna delle cose che facciamo, a cui teniamo o
tendiamo, esisterebbe.
L'immagine della copertina (bellissima) e il sottotitolo
potrebbero indurre al catastrofismo. Invece contengono un senso di allerta che
a me pare sano. Anzi, spero spinga dolcemente gli esseri umani a guardare i luoghi,
i contesti, la casa-mondo nella quale vivono come la priorità cui dare
attenzione, pulendo lo sguardo dall'opacità scontata di cui sopra.
Tra le strategie di sopravvivenza non voglio certo sminuire
l'abitudine all'ambiente, acclimatarci senza pensiero è una risorsa, una forma
della nostra plasticità al mondo. Altrimenti non ci saremmo adattati e non
saremmo diventati la specie dominante (antropocene, appunto).
Da tempo però quel mondo assuefatto e trasformato dalla
nostra presenza, evoluto (nel bene e nel male) grazie alle nostre sollecitazioni,
grida vendetta. La supremazia umana ha contribuito fortemente a creare e ad
accelerare stress e cambiamenti che vanno nella direzione opposta a noi stessi.
Vanno a sfavore della vita cui siamo abituati.
Mi piace il punto di vista dell'autrice, una grande
viaggiatrice che porta dentro di sé (per esperienza familiare e per scelta) la
propensione al nomadismo.
Questa attitudine fisica e mentale fa emergere due aspetti
fondamentali: la consapevolezza della multiformità di luoghi e culture; l'idea della
migrazione (vista dai nostri occhi stanziali come una condizione solo subita e drammatica)
come risorsa dell'umanità fin dalla notte dei tempi: gli esseri umani hanno
consolidato il proprio posto sulla Terra migrando.
"È la migrazione che ci ha resi ciò che siamo. Questo può
essere difficile da capire nel contesto delle identità e dei vincoli
geopolitici di oggi, dove può sembrare un'aberrazione, tuttavia, da un punto di
vista storico, sono le nostre identità e i nostri confini nazionali a
costituire l'anomalia. Le migrazioni, che siano spinte dal desiderio di
esplorazione e di avventura, dal bisogno di fuggire da un disastro e mettersi
al sicuro, dalla ricerca di una nuova terra in grado di fornire migliori
opportunità, che siano motivate da Dio o dalla propria anima, dal commercio o
dall'arte, o anche imposte con la violenza, hanno trasformato il nostro mondo e
globalizzato la nostra specie. L'insieme delle migrazioni ha sostanzialmente
creato il sistema umano di cui oggi facciamo tutti parte.
Per gli esseri umani, la migrazione è profondamente
intrecciata con la cooperazione: è solo grazie alle nostre estese collaborazioni
che siamo in grado di migrare, e sono le nostre migrazioni che hanno forgiato
l'odierna società globale collaborativa. Solo se comprendiamo le peculiarità
della nostra specie, e il modo in cui siamo giunti a dominare il pianeta e il
suo clima, saremo in grado di vedere la strada da percorrere, accettando l'idea
di utilizzare la nostra forza intrinseca rappresentata dalla migrazione
collaborativa per riuscire a superare la crisi ambientale che stiamo
affrontando". (pag. 54)
Perché l'umanità dovrebbe contemplare di spostarsi?
Gaia Vince spiega in modo avvincente e lucido la condizione
esatta in cui oggi la Terra e i presidi umani si trovano; le proiezioni
puntuali che gli scienziati da molti decenni fanno e aggiornano su cosa ci
attende anche se rovesceremo i flussi di surriscaldamento del pianeta (il libro
predispone per i lettori vari gradi di compensazione o scivolamento a seconda
di come e quanto saremo capaci di intervenire); e soprattutto come e con quali
strumenti possiamo iniziare a costruire un mondo vivibile, diversamente
vivibile.
Iniziare. Avremmo dovuto farlo da tempo. Noi umani sappiamo
bene che nulla al mondo cambia all'improvviso: costruire e distruggere
sono fenomeni a lento respiro, per noi, tanto più per la Terra.
Quelli che Gaia Vince chiama "I quattro cavalieri dell'Antropocene" (incendi, calore estremo, siccità e inondazioni) sono fenomeni già in atto in tantissime parti di mondo, da tempo e lo saranno sempre più (anche se invertiamo la rotta dei combustibili fossili e dell'emissione di CO2). Le fasce tropicali e subtropicali diventeranno (e in parte sono già) invivibili, i poli saranno sempre più caldi; fenomeni apparentemente opposti convivranno: zone totalmente aride e zone sfiancate da inondazioni.
Eppure, nulla di tutto questo necessariamente ci annienterà. Nonostante i pachidermi politici che governano le nazioni del mondo si muovano lentamente o affatto, sono già in atto progetti per ripensare la vita sul nostro pianeta. Solo, dobbiamo imparare a immaginarci altrove, mutevoli, plastici nel mondo; dobbiamo spogliarci almeno un po' dei radicamenti ambientali e culturali; dobbiamo iniziare a pensarci apolidi, a sconfinare, prima ancora che con il corpo, con la mente.
Contro ogni apparenza questo è un libro ottimista. Lo è
perché scansa dal nostro orizzonte la tentazione di urlare semplicemente alla
catastrofe o, al contrario, di minimizzare i rischi.
E non ha dubbi l'autrice (ne ho pochi anche io nel mio
piccolo): il destino dell'umanità (a poche generazioni da noi, o già in quella
dei nostri figli) è di spostarsi, di ricostruire e reinventare luoghi, città,
comunità; di congegnare strumenti e strategie per rendere gli ambienti vivibili
in termini di temperatura, umidità, siccità, socialità.
Già, le relazioni umane, la convivenza, il benessere. Un pilastro
fondamentale dei cambiamenti climatici è l'allargamento delle disuguaglianze
sociali. Talmente già evidente: chi migra per mancanze di risorse e per sfuggire
ad ambienti invivibili, ad ogni latitudine è la fascia di popolazione più povera. Non è banale, e non lo è ricordare che il principio basilare
della convivenza è la collaborazione tra esseri umani.
"Il cambiamento climatico è il cambiamento di tutto, perché il clima è la base su cui impostiamo le nostre vite. Determina il luogo in cui è possibile abitare e il modo in cui vi si può vivere, il calendario delle stagioni e la scelta delle coltivazioni, i territori dove piove, le temperature, la forma dei litorali e le caratteristiche dei paesaggi, il percorso delle correnti oceaniche e la gravità delle tempeste. Nei prossimi decenni ognuno di noi sperimenterà questo profondo cambiamento esistenziale: un'alterazione radicale del nostro rapporto con l'ambiente che ha generato la nostra cultura, la nostra società, la nostra stessa vita". (pagg. 257-258)