“L’animale morente” di Philip Roth

Ho sempre un certo turbamento a leggere Philip Roth. Una
specie di inquietudine che sale pagina dopo pagina e da cui non riesco a
staccarmi. È uno scrittore che ho sempre amato per ragioni sfuggenti, e ogni
volta che mi accosto a un suo scritto (saggi compresi) so che sarò sorpresa e
turbata. Anzi, attendo quel turbamento con un certo piacere. Sono spinta sempre
ad esplorare tra le sue parole come dentro un'oscurità, un luogo buio in cui
entro dopo essere stata abbacinata da troppa luce. So per certo che dentro la
stanza ci sono oggetti, forse persone, che mi sorprenderanno e con cui vorrò
attardarmi. Solo che all'inizio, appena entrata, non vedo nulla, solo un nero
pesto e nessun punto di riferimento; il cuore batte forte, inquieto, e devo
lasciare che si calmi mentre gli occhi si abituano e il nero scivola intorno
agli oggetti e ai corpi, fino a mostrarli. Allora il muscolo rallenta, strizzo
gli occhi e vedo le forme.
Quando poi sono lì, non è che mi placo del tutto. Perché
Roth riesce sempre a sospingermi oltre. Sono costretta ad aprire altre porte e
a trovare nuovi punti di riferimento e nuovi profili.
Esattamente con questo animo ho letto "L'animale morente",
uscito a New York nel 2001, in Italia pubblicato da Einaudi nel 2002.
David Kepesh è un uomo di una certa età, ha una cattedra di critica letteraria
all'università, esposto al pubblico per i suoi interventi e approfondimenti alla
radio e in tv.
Soprattutto Kepesh è ossessivamente proteso al desiderio. Ha costellato la vita
di attrazioni consumate: le sue studentesse per lo più (ma, negli ultimi 15
anni, solo una volta terminati i corsi e la stretta relazione professore
allieva). Un animale, riflessivo e istintivo ad un tempo, che non può fare a
meno della bellezza, del mondo pieno e umido del femminile. Un'attività che Kepesh
porta avanti metodicamente, con fantasia e distacco, con la razionalità pulita
dal sentimentalismo, godendo di ogni relazione (più o meno fugace) la purezza
della carnalità, del piacere fisico ed estetico, la libertà del desiderio; di
ogni donna conserva, riposti nei pensieri, la personalità, l'istinto, i punti
di forza e debolezza, senza l'abbaglio del sentimento.
Finché incontra Consuela Castillo, una ragazza cubana attorniata da una
famiglia solida, presente, affettuosa. È allieva del suo corso di critica e,
come tutte le altre, predisposta ad essere nella mente di Kepesh desiderio
puro, godimento gioioso e solitario, senza attese se non quelle del corpo e del
piacere.
Ma Consuela entra nella sua vita sfondando tutte le paratie del pensiero. La
ratio, che per anni ha mantenuto pulito il motore del piacere, cede di fronte
alla bellezza statuaria di lei.
I suoi seni soprattutto. I seni di Consuela diventano l'ossessione ingestibile
di David Kepesh.
Messa così, sembra la rappresentazione di un uomo sospinto
solo dalle pulsioni. Ma è qui che Roth mi spiazza. Come per tanti altri
personaggi o alter ego dello scrittore (in questo caso quello che sento più
vicino a Kepesh è il Mickey Sabbath de "Il teatro di Sabbath", una delle più
belle rappresentazioni del desiderio, della libertà, del dolore, della solitudine,
dell'amore, scritte da Roth), anche nella lettura breve di "L'animale morente" (poco
più di cento pagine) il protagonista è sì un uomo ossessionato dalle pulsioni,
ma entrando via via nei suoi tormenti, la primordialità indiscutibile e
affasciante dei pensieri e dei gesti scopre un mondo puntellato dalla paura,
dal desiderio di prossimità, e soprattutto da una visione della vita fatta di
libertà, ora offuscata e compromessa dal tormento.
Kepesh, che di continuo si appella al desiderio puro, alla distanza dalle convivenze
che infragiliscono, minano, tolgono forza all'attrazione tra i corpi e i
pensieri degli amanti, cuce con ogni donna trame di libertà condivisa.
Il magnetismo di Consuela (i suoi seni, le camicette sensuali e composte, il corpo
grande e armonioso) diventa un'ossessione insostenibile, ma anche un viaggio di
svelamento: alla bellezza catartica e ingestibile dei suoi seni commoventi,
eccitanti, fuori da ogni scala estetica (Kepesh li paragona a quelli del "Grande
nudo disteso" di Amedeo Modigliani, ma quelli di Consuela sono vivi), corrisponde
una ragazza consapevole del potere del corpo ma acerba nel dosarlo alla
scoperta del piacere e del desiderio.
È lui a schiuderle questo mondo denso, pieno, estremo,
appagante e libero. Lei, nella sua freschezza, prende, succhia, si nutre senza sprofondare.
Mai, nei convegni, nelle notti e giorni di piacere vissuti, Consuela appare
fragile, supina al compagno.
In questa inafferrabilità e nel nutrimento mai bastevole a Kepesh, sta il
precipizio della sua ossessione.
Può sembrare la storia di un uomo attempato caduto rovinosamente sulla pulsione
sessuale, sulla ricerca di una vitalità e giovinezza che non ha più e che,
anzi, è preludio alla fine.
In parte è così. Kepesh è tutto questo, ma Roth spinge l'ossessione più a
fondo, la porta alle estreme conseguenze. E se il protagonista appare in tutto
il suo cinismo come un uomo incapace di amare, che ha tradito, mentito, e
continua a farlo compulsivamente, l'autore ci accompagna, attraverso questa
ossessione, al centro del suo animo. Esplorare la notte in cui Kepesh è immerso, toccare con mano il suo pensiero libero (il desiderio è felicemente
libertà), ora intrappolato nel corpo di lei, apre una breccia preziosa sulla
vita e sulla morte. È lì che lo spiazzamento per me è totale, e capitolo
rovinosamente e dolorosamente sull'umanità di David Kepesh.
