“L’animale morente” di Philip Roth

11.06.2023

Ho sempre un certo turbamento a leggere Philip Roth. Una specie di inquietudine che sale pagina dopo pagina e da cui non riesco a staccarmi. È uno scrittore che ho sempre amato per ragioni sfuggenti, e ogni volta che mi accosto a un suo scritto (saggi compresi) so che sarò sorpresa e turbata. Anzi, attendo quel turbamento con un certo piacere. Sono spinta sempre ad esplorare tra le sue parole come dentro un'oscurità, un luogo buio in cui entro dopo essere stata abbacinata da troppa luce. So per certo che dentro la stanza ci sono oggetti, forse persone, che mi sorprenderanno e con cui vorrò attardarmi. Solo che all'inizio, appena entrata, non vedo nulla, solo un nero pesto e nessun punto di riferimento; il cuore batte forte, inquieto, e devo lasciare che si calmi mentre gli occhi si abituano e il nero scivola intorno agli oggetti e ai corpi, fino a mostrarli. Allora il muscolo rallenta, strizzo gli occhi e vedo le forme.
Quando poi sono lì, non è che mi placo del tutto. Perché Roth riesce sempre a sospingermi oltre. Sono costretta ad aprire altre porte e a trovare nuovi punti di riferimento e nuovi profili.
Esattamente con questo animo ho letto "L'animale morente", uscito a New York nel 2001, in Italia pubblicato da Einaudi nel 2002.

David Kepesh è un uomo di una certa età, ha una cattedra di critica letteraria all'università, esposto al pubblico per i suoi interventi e approfondimenti alla radio e in tv.
Soprattutto Kepesh è ossessivamente proteso al desiderio. Ha costellato la vita di attrazioni consumate: le sue studentesse per lo più (ma, negli ultimi 15 anni, solo una volta terminati i corsi e la stretta relazione professore allieva). Un animale, riflessivo e istintivo ad un tempo, che non può fare a meno della bellezza, del mondo pieno e umido del femminile. Un'attività che Kepesh porta avanti metodicamente, con fantasia e distacco, con la razionalità pulita dal sentimentalismo, godendo di ogni relazione (più o meno fugace) la purezza della carnalità, del piacere fisico ed estetico, la libertà del desiderio; di ogni donna conserva, riposti nei pensieri, la personalità, l'istinto, i punti di forza e debolezza, senza l'abbaglio del sentimento.
Finché incontra Consuela Castillo, una ragazza cubana attorniata da una famiglia solida, presente, affettuosa. È allieva del suo corso di critica e, come tutte le altre, predisposta ad essere nella mente di Kepesh desiderio puro, godimento gioioso e solitario, senza attese se non quelle del corpo e del piacere.
Ma Consuela entra nella sua vita sfondando tutte le paratie del pensiero. La ratio, che per anni ha mantenuto pulito il motore del piacere, cede di fronte alla bellezza statuaria di lei.
I suoi seni soprattutto. I seni di Consuela diventano l'ossessione ingestibile di David Kepesh.

Messa così, sembra la rappresentazione di un uomo sospinto solo dalle pulsioni. Ma è qui che Roth mi spiazza. Come per tanti altri personaggi o alter ego dello scrittore (in questo caso quello che sento più vicino a Kepesh è il Mickey Sabbath de "Il teatro di Sabbath", una delle più belle rappresentazioni del desiderio, della libertà, del dolore, della solitudine, dell'amore, scritte da Roth), anche nella lettura breve di "L'animale morente" (poco più di cento pagine) il protagonista è sì un uomo ossessionato dalle pulsioni, ma entrando via via nei suoi tormenti, la primordialità indiscutibile e affasciante dei pensieri e dei gesti scopre un mondo puntellato dalla paura, dal desiderio di prossimità, e soprattutto da una visione della vita fatta di libertà, ora offuscata e compromessa dal tormento.
Kepesh, che di continuo si appella al desiderio puro, alla distanza dalle convivenze che infragiliscono, minano, tolgono forza all'attrazione tra i corpi e i pensieri degli amanti, cuce con ogni donna trame di libertà condivisa.
Il magnetismo di Consuela (i suoi seni, le camicette sensuali e composte, il corpo grande e armonioso) diventa un'ossessione insostenibile, ma anche un viaggio di svelamento: alla bellezza catartica e ingestibile dei suoi seni commoventi, eccitanti, fuori da ogni scala estetica (Kepesh li paragona a quelli del "Grande nudo disteso" di Amedeo Modigliani, ma quelli di Consuela sono vivi), corrisponde una ragazza consapevole del potere del corpo ma acerba nel dosarlo alla scoperta del piacere e del desiderio.
È lui a schiuderle questo mondo denso, pieno, estremo, appagante e libero. Lei, nella sua freschezza, prende, succhia, si nutre senza sprofondare. Mai, nei convegni, nelle notti e giorni di piacere vissuti, Consuela appare fragile, supina al compagno.
In questa inafferrabilità e nel nutrimento mai bastevole a Kepesh, sta il precipizio della sua ossessione.

Può sembrare la storia di un uomo attempato caduto rovinosamente sulla pulsione sessuale, sulla ricerca di una vitalità e giovinezza che non ha più e che, anzi, è preludio alla fine.
In parte è così. Kepesh è tutto questo, ma Roth spinge l'ossessione più a fondo, la porta alle estreme conseguenze. E se il protagonista appare in tutto il suo cinismo come un uomo incapace di amare, che ha tradito, mentito, e continua a farlo compulsivamente, l'autore ci accompagna, attraverso questa ossessione, al centro del suo animo. Esplorare la notte in cui Kepesh è immerso, toccare con mano il suo pensiero libero (il desiderio è felicemente libertà), ora intrappolato nel corpo di lei, apre una breccia preziosa sulla vita e sulla morte. È lì che lo spiazzamento per me è totale, e capitolo rovinosamente e dolorosamente sull'umanità di David Kepesh.

"Grande nudo disteso" (olio su tela, 73 x116 cm) Amedeo Modigliani, 1917