La Fabbrica del Vedere e la meccanica dei sogni. Conversazione con Carlo Montanaro

Al civico
3857, in Calle del Forno a Venezia, ci si arriva dalla Strada Nuova.
Attilio
D'Este era forner, collezionista appassionato di cinema e proprietario
del civico 3857.
Lì c'è la Fabbrica
del Vedere di Carlo Montanaro che nel 2012 ha comprato la casa (spaziosa in
verticale come tante case di Venezia), ha conservato la collezione di Attilio e
ha portato la sua, quella dell'Archivio Carlo Montanaro: una brulicante
distesa di film, fotografie, stampe, macchine per la fotografia e per il
cinema; unico grande archivio, a Venezia, di amore per la settima arte e i suoi
estesi dintorni.
Dal 1973
il logo dell'Archivio è un disegno che il fumettista Guillermo Mordillo ha
dedicato a Carlo, dopo essersi conosciuti al Festival del Fumetto di Lucca. Ma
gli incontri nel tempo sono tanti: Luigi Chiarini, Angelo Humouda, Paolo
Cardazzo, Giovanni Soccol, Bruno Bozzetto, Cavandoli... un caleidoscopio di
personalità estrose e variamente immerse nell'arte.
Carlo
Montanaro è un uomo di cinema. La storia dell'Archivio e della Fabbrica la
tratteggiamo con lui, in una conversazione punteggiata da incursioni nelle
stanze del civico 3857 e dalla visione straordinaria di un appassionato di
materiali e tecniche con lo spirito da esploratore, un voyeur della
bellezza in movimento che non è mai appagato, se non nell'istante di una
conquista che apre un mondo, un altro ancora, e così via...
Ho letto che da piccolo voleva scoprire com'erano fatti gli oggetti.
Ho sempre voluto sapere com'era fatto il meccanismo. Smontavo tutto. Magari poi non sapevo rimettere insieme i pezzi, ma smontavo gli oggetti per capire come funzionavano.
La passione per i meccanismi del cinema è nata da questa curiosità infantile?
La prima forma di spettacolo che mi ha incuriosito da bambino è quella delle marionette. A quattro anni avevo un teatro di burattini, ideavo commedie e i miei genitori mi mandavano ogni tanto all'asilo per intrattenere gli altri bambini. Alle elementari, ai Cavanis, organizzavano spettacoli di marionette. Una volta, durante una scena di tempesta con il rumore del vento, sono partito a gattoni, sono passato dietro il palcoscenico, mi sono trovato davanti le gambe del prete, ho preso un gran spavento ma ho fatto in tempo a vedere che strusciava un pezzo di carta sul muro: quello era il vento. Ho sempre voluto stare dietro le quinte per capire come funzionano le cose.
Come ha raccolto film, macchine per la visione, fotografie, stampe?
All'inizio collezionavo fotografie e brochure alla Mostra del Cinema, fin dal 1968 quando era direttore Luigi Chiarini. Ho cominciato a procurarmi film per fare proiezioni in parrocchia con le bobine 8mm del Film Office: Chaplin, Stanlio e Ollio, Buster Keaton. Poi, nel '76 o '77 ho iniziato ad insegnare: quattro ore il sabato mattina all'Accademia di Belle Arti. Il problema era cosa fare: parlare?... Mi sono inventato di portare in aula il proiettore 8mm e ho continuato a comprare film. Collezionare è diventata una cosa seria quando sono passato di ruolo e quello che compravo lo utilizzavo per fare lezione. Cercavo indirizzi dove acquistare film e quando ho conosciuto lo storico del cinema Angelo Humouda (che a Genova aveva fondato la Cineteca David W. Griffith, acquistando in America i film in 16mm), mi sono fatto dare gli indirizzi dove prendeva le pellicole. I materiali hanno cominciato a girare e le persone mi chiedevano cosa scrivere per i ringraziamenti. Cineteche, archivi, tutti avevano un nome, me ne sono dato uno anch'io: Archivio Carlo Montanaro.
L'Archivio custodisce l'opera di Francesco Pasinetti, critico veneziano, sceneggiatore, regista, fotografo. Come nasce l'interesse per Pasinetti?
Nasce dal mistero. All'inizio degli anni '70 il suo nome spuntava ovunque, tutti dicevano di averlo conosciuto ma si sapeva ben poco. Ho cominciato a documentarmi. Ho conosciuto il pittore Giovanni Soccol che stava comprando la casa di Pasinetti a San Polo dalla vedova, Loredana Balboni. Ci fu un incendio e Soccol salvò tutto quello che si poteva, tra cui le fotografie di Pasinetti. Ho raccolto le foto e creato l'opportunità di restaurare i documentari e il suo unico lungometraggio a soggetto, Il canale degli angeli. Sono stati Loredana Balboni e il fratello di Francesco, Pier Maria, a volere che custodissi i materiali.
Cos'è l'Archivio Carlo Montanaro per Venezia?
Venezia ha mille potenzialità. È la città della Mostra del Cinema, l'immagine di Venezia si è evoluta meccanicamente, dalle incisioni in poi. Nella città dove è stato inventato un mondo di immagini, che ha alle spalle i vedutisti e gli occhialeri (con i cannocchiali di Burlini) non c'è, per esempio, nessuna istituzione che si preoccupi della fotografia. Ma sono percorsi che dovrebbero essere mostrati e che l'Archivio ha: incisioni, camera oscura, vedute d'ottica, incisione da dagherrotipo, fotografia, stereoscopia, fino ad arrivare al cinema.
Nel 2014 i materiali collezionati dall'Archivio prendono casa al civico 3857 in Calle del Forno a Cannaregio. Come nasce La Fabbrica del Vedere?
L'idea nasce nel 2012. Conoscevo Attilio D'Este che voleva trasformare la sua collezione in un museo, ma la quantità di materiale non era tale da poter competere con realtà italiane molto più corpose. Quando D'Este all'inizio del 2012 è morto, nel testamento esprimeva la volontà di non disperdere la collezione. Ho pensato che forse aveva senso unire la sua alla mia e ho contattato gli eredi.
Cos'è la Fabbrica del Vedere?
È un progetto. Un luogo che raccoglie i materiali collezionati, organizza al piano terra mostre e accoglie visitatori e amici. La Fabbrica custodisce una tale quantità di film e oggetti, che si possono organizzare mostre per i prossimi trent'anni.
Quest'anno è uscita la riedizione del suo libro Dall'argento al pixel. Storia della tecnica del cinema (Linea Edizioni). Nel passaggio dalla pellicola al digitale cosa si perde?
La materialità. La pellicola è materia, quando viene sviluppata, la parte che è stata fissata dalla luce è formata da granellini, talmente piccoli da essere percepiti solo a livello subliminale. Sullo schermo non ci accorgiamo che tutta la materia vibra, questa vibrazione aumenta l'idea di tridimensionalità e la qualità dell'immagine formale. Nel digitale, invece, è tutto texture: punti messi sempre nello stesso posto. Ci siamo abituati a vedere una cosa piatta che la memoria storica ci ripresenta come se fosse quella di una volta, ma non lo è. E poi la luce. Nel cinema analogico il bianco si vede perché la pellicola è perfettamente trasparente e quello che riluce è il bianco dello schermo. Nel digitale il bianco deriva dalla sovrapposizione di tre colori: rosso, verde, blu. È solo l'elaborazione di tre pattern colorati.
Cosa rende il cinema un'arte?
Qualcosa che può essere indipendente dalla tecnologia che lo trasmette. L'arte è qualcosa di tecnologico che guardi, senti, apprendi ma deve emozionarti, al di là del racconto, del segno, della materia. Con la realtà virtuale si è arrivati velocemente a un punto di non ritorno: di fronte alla matericità tutto è potuto diventare virtuale. La contaminazione fondamentale è stata il videogioco: se le macchine possono simulare tutto, come si può pensare di raccontare qualcosa?
La storia delle immagini in movimento racconta quanto le immagini possano essere magiche.
Le immagini facevano paura. Portavano in una dimensione che l'uomo non riusciva a controllare e di cui non capiva l'artificiosità. Oggi questo mistero rimane, ma dipende da noi. Non abbiamo più lo spavento o la meraviglia di fronte all'immagine in movimento, ma abbiamo il disporci ad essere spaventati o meravigliati.

Lo spavento di cui parla è quello della locomotiva dei Fratelli Lumière che sembra uscire dallo schermo o è uno spavento precedente?
È precedente. La locomotiva che esce dallo schermo è un perfezionamento di quello che esisteva già. Per riuscire a spaventare veramente bisogna avere sempre una marcia in più rispetto a prima. Il cinema, complice il buio, pretende da te di porti in una condizione di minoranza, di assenza, di disponibilità. Quando paghi un biglietto, entri per vedere qualcosa di diverso.
E con questo siamo arrivati alla sala cinematografica. Esiste ancora?
Non so se esiste ancora. La sala era il tempio in cui tu andavi a coronare quello che la vita non poteva darti. Se credevi nel cinema, il buio ti permetteva (e ti permette ancora) di entrare in un'altra dimensione. Ma è il linguaggio che un po' nego. Abbiamo imparato a decodificare la velocità, quella del videogioco, dello spot pubblicitario che dura quindici secondi e dentro ha almeno otto inquadrature. La memoria storica acquisita ci permette di intendere queste immagini. È su questo che va decadendo il linguaggio.
La sala è ancora un tempio?
Può esserlo ancora. È il luogo della comunità, dell'evento collettivo. Il cinema non esiste come evento singolo. Se fosse rimasto tale, non avrebbe avuto mai successo. Quando Edison ha cominciato a vendere i kinetoscopi, chi li comprava doveva prenderne almeno sei, per avere sei cose diverse da far vedere, invece di una, e guadagnare da una persona 60 centesimi, invece di 10. Al cinema entravi con 10 centesimi per vedere una storia completa, complessa, con la musica e insieme agli altri.
Conversazione con lo studioso di cinema e collezionista Carlo Montanaro
pubblicata nella rivista REM, Anno XI, n. 2/3 del 15 ottobre 2020, Apogeo Editore pp. 31-35