L'arcobaleno è un incantesimo

Ci fanno entrare in buon ordine. E tutti restiamo in
silenzio col timore di sbagliare qualcosa nel rituale. Siamo costretti ad impararlo all'istante, non c'è tempo per
ripassarlo.
- Fate attenzione a quello che vi viene detto, siete tanti,
perciò, cerchiamo di collaborare e tutto andrà bene e scorrerà velocemente. Nei
limiti del possibile.
Ho cercato di mettere tutta la mia comprensione, mentre
guardavo i secondini muoversi per tenere il branco unito.
Ed ho già sbagliato. Non si chiamano secondini, sono le
guardie carcerarie.
Mi sono fatta subito questo rimprovero, rendendomi conto che
li pensavo come secondini, ma non c'è voluto molto per capire che, in realtà,
fa poca differenza.
È l'atteggiamento quello che conta, come in tutte le cose.
'La categoria considera il termine secondino spregiativo e
discriminante'... va bene, ciò che ho visto, però, è un plotone di uomini in
divisa ridere davanti ad alcuni detenuti che hanno messo in scena un'opera
teatrale scritta da loro.
I secondini sono in svantaggio.
Regola numero uno: rispetta se vuoi essere rispettato.
Era primavera, io e il Cele siamo partiti da Pesaro. Ci
aspettavano a Modena al più presto, anzi, aspettavano lui che faceva parte del
gruppo teatrale, in qualità di factotum-percussionista, io facevo parte del
pubblico.
Bello il suo ruolo. Lo vedevo schizzare da un angolo
all'altro di quel perimetro opprimente. Non so come, ma riusciva a svolazzare
come un'ombra inconsistente, superando ogni senso di costrizione. Lui con la
sua aria dinoccolata, alto e fino come un chiodo.
Uno spettacolo teatrale dentro il carcere, è un'idea che fa
pensare. Soprattutto dopo esserci entrati in quella Casa circondariale.
Era una struttura rettangolare, spigolosa ed essenziale.
All'inizio, un edificio piccolo serviva da ricezione; un imbuto dal quale tutti
dovevamo passare per sottoporci al metal detector. Un rito imbarazzante, per me
che sapevo di poter uscire dopo poche ore, figuriamoci per chi lì dentro doveva
restarci. Era la messa a nudo del proprio essere, passato al setaccio sotto gli
occhi degli altri che, forse per superare l'imbarazzo, ti squadravano con un
accenno di sorriso, aspettando magari che un possesso proibito saltasse fuori.
Ma prendiamolo come un gioco, come un'esperienza nuova. No,
non mi piace questo gioco, per favore voglio scendere. Fatemi scendere!
E siamo già divisi per gruppi, caricati su auto che fanno il
giro del perimetro, quadrato, del circondariale e depositati davanti al portone
di un altro edificio, quadrato.
Aspettiamo, aspettiamo… aspettiamo. Finalmente ci fanno
entrare nel teatro.
Ehi! quella guardia ha il manganello e le manette che
penzolano dalla cinta! Anche quell'altra li ha, tutte, tutte sono armate. Non
devo dimenticarlo che sono in un carcere. La tentazione è forte, è perché
vorrei estraniarmi, vorrei non sentire questo senso di oppressione.
La coercizione, ha a che fare con quel circondariale.
Insieme danno un'idea di circolarità, sono parole quasi belle con il senso di
movimento indefinito che hanno.
Eppure non sono parole belle, sono chiuse, soffocanti e mi
chiedo cosa c'entra quel circondariale con questo posto quadrato, spigoloso,
ruvido che, a tutto fa pensare, tranne che al movimento.
Il palcoscenico è anch'esso un quadrato, ricavato al centro della
stanza. Tre lati sono chiusi dalle file di sedie, l'ultimo da una tenda bianca,
un sipario che vedremo aprirsi solo alla fine. Ma ancora non lo sapevamo.
Aspettavamo tutti di veder uscire da lì gli attori, loro, invece, sono sbucati
dai lati, dalla penombra che era scesa su di noi.
Camminavano fuori dal palcoscenico quadrato, fuori dalle
file di sedie, al di là della staticità di quel posto, al di là del
circondariale. Formavano un anello di corpi e di voci sussurrate come bisbigli
alle nostre spalle, costringendoci ad un movimento circolare del corpo e dei
sensi. E poi il loro passo è diventato una corsa.
Ecco il circondariale!
Hanno messo in scena se stessi, la loro paura, la voglia di
volare sopra le nostre teste. Hanno raccontato i manganelli, le manette. li
quadrato circondariale. Si sono spogliati di abiti pesanti e hanno mostrato
maglie variopinte e pelle, la loro pelle. Non posso giudicare, ma posso
sentirmi adirata, offesa dalle risate grasse e irrispettose dei secondini.
Quando le luci si riaccendono, qualcuno tira violentemente
le tende alle finestre, mostrando una fila interminabile di sbarre spesse e fitte.
Non lo devo dimenticare che sono in un carcere.
La magia delle voci è finita, le loro storie si spezzano su
quelle sbarre e sono di nuovo preda della costrizione.
Ci fanno uscire, finalmente. Salgo in una delle auto, sono
la prima. Alla guida c'è una guardia in divisa, anche lei porta le manette alla
cintola. Il respiro resta sospeso per un istante - sono così vicine che quasi
le posso toccare - poi l 'aria mi esce dai polmoni in un fiato sonoro.
Si è girato a guardarmi quel giovane uomo, un viso
sorridente e comprensivo che ha smascherato in un istante la mia tensione -
stanca... eh?... - le sue parole sono uscite lisce e discrete come l'unico
granello di umanità in quel circondariale.
La mostruosa macchina ci risputa fuori come un pasto
indigesto... Pfuuhh! umanità che sei già nei ranghi, qui vogliamo solo spettri
ribelli. Se ti concediamo di entrare, è solo per pochi istanti. E se diamo a loro
una parvenza di socializzazione, è solo qui dentro, solo nel quadrato
circondariale. Mi chiedo che senso ha usare il teatro come forma di
socializzazione e reinserimento per i detenuti, e poi fargliela vivere proprio
lì, nel monumento della loro condanna, per un pubblico limitato e scelto, al
quale sono stati controllati i documenti già un paio di settimane prima.
Cosa può esserci di socializzante in un teatro fatto di
sbarre, di manette e di applausi non goduti.
Era l'imbrunire mentre tornavamo verso Pesaro. Stavo in un
angolo del sedile posteriore, senza parlare.
Fuori dal finestrino scorreva il film della giornata. Alle
spalle, Modena spariva nella sera accesa in un tramonto rosso fuoco e davanti a
noi si era addensato un temporale color inchiostro solcato da saette silenziose
per la lontananza.
Proprio nel mezzo, sopra le nostre teste, il rosso e il nero
erano uniti da un arco completo di arcobaleno.
Mi piace pensare che davvero ai piedi dell'iride ci sia la
pentola d'oro.