L'arcobaleno è un incantesimo

06.04.2023

Ci fanno entrare in buon ordine. E tutti restiamo in silenzio col timore di sbagliare qualcosa nel rituale. Siamo costretti ad impararlo all'istante, non c'è tempo per ripassarlo.
- Fate attenzione a quello che vi viene detto, siete tanti, perciò, cerchiamo di collaborare e tutto andrà bene e scorrerà velocemente. Nei limiti del possibile.
Ho cercato di mettere tutta la mia comprensione, mentre guardavo i secondini muoversi per tenere il branco unito.
Ed ho già sbagliato. Non si chiamano secondini, sono le guardie carcerarie.
Mi sono fatta subito questo rimprovero, rendendomi conto che li pensavo come secondini, ma non c'è voluto molto per capire che, in realtà, fa poca differenza.
È l'atteggiamento quello che conta, come in tutte le cose.
'La categoria considera il termine secondino spregiativo e discriminante'... va bene, ciò che ho visto, però, è un plotone di uomini in divisa ridere davanti ad alcuni detenuti che hanno messo in scena un'opera teatrale scritta da loro.
I secondini sono in svantaggio.
Regola numero uno: rispetta se vuoi essere rispettato.
Era primavera, io e il Cele siamo partiti da Pesaro. Ci aspettavano a Modena al più presto, anzi, aspettavano lui che faceva parte del gruppo teatrale, in qualità di factotum-percussionista, io facevo parte del pubblico.
Bello il suo ruolo. Lo vedevo schizzare da un angolo all'altro di quel perimetro opprimente. Non so come, ma riusciva a svolazzare come un'ombra inconsistente, superando ogni senso di costrizione. Lui con la sua aria dinoccolata, alto e fino come un chiodo.
Uno spettacolo teatrale dentro il carcere, è un'idea che fa pensare. Soprattutto dopo esserci entrati in quella Casa circondariale.
Era una struttura rettangolare, spigolosa ed essenziale. All'inizio, un edificio piccolo serviva da ricezione; un imbuto dal quale tutti dovevamo passare per sottoporci al metal detector. Un rito imbarazzante, per me che sapevo di poter uscire dopo poche ore, figuriamoci per chi lì dentro doveva restarci. Era la messa a nudo del proprio essere, passato al setaccio sotto gli occhi degli altri che, forse per superare l'imbarazzo, ti squadravano con un accenno di sorriso, aspettando magari che un possesso proibito saltasse fuori.
Ma prendiamolo come un gioco, come un'esperienza nuova. No, non mi piace questo gioco, per favore voglio scendere. Fatemi scendere!
E siamo già divisi per gruppi, caricati su auto che fanno il giro del perimetro, quadrato, del circondariale e depositati davanti al portone di un altro edificio, quadrato.
Aspettiamo, aspettiamo… aspettiamo. Finalmente ci fanno entrare nel teatro.
Ehi! quella guardia ha il manganello e le manette che penzolano dalla cinta! Anche quell'altra li ha, tutte, tutte sono armate. Non devo dimenticarlo che sono in un carcere. La tentazione è forte, è perché vorrei estraniarmi, vorrei non sentire questo senso di oppressione.
La coercizione, ha a che fare con quel circondariale. Insieme danno un'idea di circolarità, sono parole quasi belle con il senso di movimento indefinito che hanno.
Eppure non sono parole belle, sono chiuse, soffocanti e mi chiedo cosa c'entra quel circondariale con questo posto quadrato, spigoloso, ruvido che, a tutto fa pensare, tranne che al movimento.
Il palcoscenico è anch'esso un quadrato, ricavato al centro della stanza. Tre lati sono chiusi dalle file di sedie, l'ultimo da una tenda bianca, un sipario che vedremo aprirsi solo alla fine. Ma ancora non lo sapevamo. Aspettavamo tutti di veder uscire da lì gli attori, loro, invece, sono sbucati dai lati, dalla penombra che era scesa su di noi.
Camminavano fuori dal palcoscenico quadrato, fuori dalle file di sedie, al di là della staticità di quel posto, al di là del circondariale. Formavano un anello di corpi e di voci sussurrate come bisbigli alle nostre spalle, costringendoci ad un movimento circolare del corpo e dei sensi. E poi il loro passo è diventato una corsa.
Ecco il circondariale!
Hanno messo in scena se stessi, la loro paura, la voglia di volare sopra le nostre teste. Hanno raccontato i manganelli, le manette. li quadrato circondariale. Si sono spogliati di abiti pesanti e hanno mostrato maglie variopinte e pelle, la loro pelle. Non posso giudicare, ma posso sentirmi adirata, offesa dalle risate grasse e irrispettose dei secondini.
Quando le luci si riaccendono, qualcuno tira violentemente le tende alle finestre, mostrando una fila interminabile di sbarre spesse e fitte. Non lo devo dimenticare che sono in un carcere.
La magia delle voci è finita, le loro storie si spezzano su quelle sbarre e sono di nuovo preda della costrizione.
Ci fanno uscire, finalmente. Salgo in una delle auto, sono la prima. Alla guida c'è una guardia in divisa, anche lei porta le manette alla cintola. Il respiro resta sospeso per un istante - sono così vicine che quasi le posso toccare - poi l 'aria mi esce dai polmoni in un fiato sonoro.
Si è girato a guardarmi quel giovane uomo, un viso sorridente e comprensivo che ha smascherato in un istante la mia tensione - stanca... eh?... - le sue parole sono uscite lisce e discrete come l'unico granello di umanità in quel circondariale.
La mostruosa macchina ci risputa fuori come un pasto indigesto... Pfuuhh! umanità che sei già nei ranghi, qui vogliamo solo spettri ribelli. Se ti concediamo di entrare, è solo per pochi istanti. E se diamo a loro una parvenza di socializzazione, è solo qui dentro, solo nel quadrato circondariale. Mi chiedo che senso ha usare il teatro come forma di socializzazione e reinserimento per i detenuti, e poi fargliela vivere proprio lì, nel monumento della loro condanna, per un pubblico limitato e scelto, al quale sono stati controllati i documenti già un paio di settimane prima.
Cosa può esserci di socializzante in un teatro fatto di sbarre, di manette e di applausi non goduti.
Era l'imbrunire mentre tornavamo verso Pesaro. Stavo in un angolo del sedile posteriore, senza parlare.
Fuori dal finestrino scorreva il film della giornata. Alle spalle, Modena spariva nella sera accesa in un tramonto rosso fuoco e davanti a noi si era addensato un temporale color inchiostro solcato da saette silenziose per la lontananza.
Proprio nel mezzo, sopra le nostre teste, il rosso e il nero erano uniti da un arco completo di arcobaleno.
Mi piace pensare che davvero ai piedi dell'iride ci sia la pentola d'oro.