Lo sguardo è uno spazio perfetto

23.02.2023

Questo testo è nato qualche tempo fa per un progetto dedicato allo spazio, esplorato da diverse persone e punti di osservazione. Il progetto non ha preso forma, ma le parole e i pensieri sono rimasti.
La mia era un'esplorazione cinematografica: "Lo sguardo è uno spazio perfetto".

Jeff guarda il quadrato che sta al di là della finestra. La sua è una prospettiva limitata, rigida come il gesso che gli ferma la gamba dal bacino al piede. L'immobilità però è resa vivace e scaltra dall'obiettivo della macchina fotografica che tiene accanto e dalla quale non si separa mai. È come un prolungamento del corpo e dello sguardo, le distanze che non può coprire con il movimento delle gambe le compensa con lo zoom. È un fotoreporter, abituato a stare dove accadono le cose, dove la vita è sorprendente e avventurosa. Essere bloccato da una frattura è un bel guaio. E allora a lavorare sono gli occhi che attraversano di taglio la finestra e restituiscono il movimento delle cose che scorrono dinanzi. L'immobilità rende importante ciò che accade all'esterno: un uomo che suona, una donna che danza, un'altra che piange, un cane che scava una buca in cortile, un marito che si muove nervoso, una moglie che improvvisamente non si vede più. Il lavoro degli occhi rende evidente l'assenza che a sua volta muove i pensieri e fa emergere il delitto. Alfred Hitchcock con La finestra sul cortile mette a punto un congegno narrativo in cui l'equilibrio tra spazio, corpi, pensieri, oggetti e orizzonte è perfetto. E ogni elemento si connette agli altri per via della prospettiva: con una grande acrobazia tecnica il regista gira il film quasi totalmente in soggettiva, quella di Jeff. La sua prospettiva si muove dalla sedia a rotelle piazzata davanti alla finestra; Lisa, la sua ragazza, entra e esce dall'appartamento e non riesce a cogliere il punto di vista di Jeff finché non si blocca accanto a lui e comincia a guardare con i suoi occhi; anche il detective Doyle, amico di Jeff, ha un problema di prospettiva, sta sulle strade, non è abituato alla sottigliezza dello stare fermo e vedrà solo quando la situazione sarà al punto di rottura. Chi invece sa e vede benissimo è Mr. Thorwald, il marito presunto assassino; lui è l'alter ego di Jeff, il suo opposto: occupa l'appartamento di fronte, si muove scorrendo di continuo davanti alle finestre, sente su di sé lo sguardo fisso e insistente di Jeff. Thorwald sa che Jeff sa e i due si osservano in un gioco di specchi. Quello che rende geniale tutto questo sistema di relazioni è lo spazio. L'azione si svolge tutta dalla prospettiva dell'appartamento del reporter, da dentro in fuori, e la macchina da presa non esce mai da lì, prendendo un qualsiasi altro punto di osservazione, se non nel finale, quando tutto si scioglie e il gioco è smascherato: solo allora la prospettiva si capovolge, dal cortile verso l'appartamento di Jeff. Per il resto la narrazione è lo sguardo di un voyeur posizionato in un rettangolo - l'appartamento - che si muove nello spazio di un altro rettangolo - il cortile interno ai caseggiati - a sua volta frammentato in tanti rettangoli - le finestre delle diverse abitazioni - aperti sulle pareti a comporre un puzzle. E in tutta questa struttura ci sono solamente due punti di fuga: un frammento di cielo che si scorge da un abbassamento del palazzo di fronte e un cunicolo in basso a sinistra, il vicolo d'uscita sulla città, sul mondo. Un film totalmente statico che mette in moto un dinamismo perfetto, attraverso una continua osmosi tra dentro e fuori, e senza tuttavia cambiare mai prospettiva.

Anche Stanley Kubrick è capace di dinamismi perfetti, per lo più in antitesi a quello appena descritto. C'è un grande caseggiato, ma non è il brulicante complesso di edifici in un quartiere newyorkese, è un mastodontico albergo, l'Overlook Hotel, appollaiato sulla cima di un monte, chiuso e solitario nel cuore dell'inverno. Shining è il racconto di uno slittameno spazio-temporale. L'edificio è enorme e qui il problema non è uscirne ma riuscire a starci dentro, capirne la composizione e i limiti. Se Jeff doveva combattere una sorta di claustrofobia, Jack, la moglie Wendy e il figlio Danny rischiano la dispersione. Lui è uno scrittore, accetta di fare il custode nella solitudine dell'Overlook Hotel per cercare di finire il suo romanzo. Stare lì è una scelta, non un'imposizione delle circostanze. Ma lasciarsi andare al silenzio di un luogo, esplorarne gli angoli, i corridoi infiniti, gli echi e in definitiva il vuoto, è una deriva, una perdita dei confini e di se stessi. L'Overlook Hotel è vuoto, eppure denso di presenze, ombre, voci, giochi reali e immaginari che occupano tutto lo spazio possibile. Invadono stanze, corridoi, saloni e la testa di Jack. La colmano di una follia cupa e gelida come il ghiaccio aggrappato alle pareti dei monti e dell'albergo: indimenticabile il volto di Jack Nicholson, addossato alla porta del bagno abbattuta a colpi d'ascia, mentre chiama ripetutamente Wendy. Per sciogliere la follia e ridurla al silenzio sarà necessario uscire. Ed è il piccolo Danny, che dell'hotel ha già esplorato tutto, a trascinare all'esterno la follia del padre. Fuori ci sono montagne, boschi, tormenta. E un labirinto. Nessun luogo raccoglie in sé schizofrenia, inganno, simulazione, attrazione quanto il labirinto. Un rebus dello spazio dove la mente dilatata di Jack insegue, più che il figlio, i suoi fantasmi e dove, finalmente e definitivamente, si placa.
Non resisto alla tentazione di gettare uno sguardo fugace su almeno altri due film di Kubrick.
Barry Lyndon, per via della luce e dell'ombra. Ambientato nel Settecento, Kubrick realizza la meravigliosa follia di girare un film solo con la luce naturale e, per gli ambienti interni e notturni, con la luce di candele e lampade a olio. Per poterlo fare, usa particolari lenti fotografiche che la Zeiss aveva predisposto per la NASA. Questo gli ha permesso di comporre lo spazio in inquadrature come fossero tele dipinte. Un azzardo tecnico con il quale ha plasmato il vuoto e la prossimità agli oggetti attraverso i chiaroscuri. La luce naturale diventa la figura fondamentale del film, svela ambienti, personaggi, volumi, paesaggi, si appoggia morbidamente su ogni cosa - corpi, stanze, oggetti - e dilata lo spazio e il tempo. E poi 2001: Odissea nello spazio, rieditato recentemente per il grande schermo a cinquant'anni dall'uscita nelle sale. Qui lo spazio è fin troppo evidente, ma non è questo il punto rilevante. Più importante è il dominio dello spazio, tanto potente da capovolgersi nel suo contrario. Dentro e fuori oscillano tra la Terra e l'Universo. L'evoluzione umana, la conquista del mondo, la supremazia dell'intelligenza, tutto passa attraverso un costante allargamento dello spazio disponibile, fino a superare i confini del pianeta e a portare lo sguardo in direzione dell'infinito: le sequenze sulle note del valzer di Strauss, in cui la navicella si avvicina e si aggancia al modulo spaziale, in una danza di corpi e meccanismi in assenza di gravità, è una delle rappresentazioni più belle di esterno ed interno, un movimento elastico tra la meccanica dei solidi, il buio dell'universo e uno spicchio di Terra che fa capolino nel riquadro dello schermo. Ma poi lo spazio si contrae fino a diventare luogo invivibile e ingestibile. L'uomo evoluto e libero di lasciarsi alle spalle la Terra, ha delegato alle macchine il pensiero. Nel chiuso della navicella l'intelligenza artificiale HAL 9000 prende il controllo di tutto. Non solo guida ma decide, dice no, riflette, possiede sinapsi che usa umanamente. Nella partita con HAL, a David serviranno tutto il pensiero, l'astuzia e la creatività possibili per riconquistare spazio, tempo e umanità. Il suo archetipo è Odisseo nel viaggio di ritorno a Itaca. Non l'arrivare ma il procedere.
Dunque un confine tra dentro e fuori, raccolto e disperso, chiuso e aperto. Un limite inevitabile anche tra umano e divino. Non si può essere entrambi. Neppure i semidèi avevano l'immortalità. Certo erano sovrumani, ma avevano un punto debole, una porta d'ingresso che non li rendeva completamente né l'uno né l'altro. Su tutti Achille. I miti greci delle origini raccontano gli uomini come esseri che godevano dell'infinito accanto agli dèi. Tutto esisteva, niente doveva essere costruito con sforzo o ragionamento. Vivere diventa un fatto mortale quando Zeus punisce gli uomini per punire Prometeo che l'ha ingannato e gli ha pure rubato il fuoco. Da lì gli esseri umani faticano, conquistano, coltivano, cucinano il cibo, sopravvivono e muoiono. E tuttavia la contropartita è che finalmente sentono. Essere tra le cose umane implica perdere la grazia divina. Gli angeli di Wim Wenders fanno esattamente questo. Il cielo sopra Berlino è denso di luoghi in cui si contrappongono un dentro e un fuori: la terra e il cielo, la superficie dei corpi e lo spazio più intimo e silenzioso al loro interno. Le sequenze più belle che restituiscono questa dicotomia sono nelle strade di Berlino, all'interno della grande biblioteca densa di scale, soppalchi e silenzio, nei volteggi della trapezista Marion, sulle cime dei palazzi con i tetti terrazzati a filo di cielo. Lì stanno gli angeli. Il passaggio dal bianco e nero al colore segna il confine tra gli angeli che non provano nulla e l'umanità che sente tutto.
Wenders è tra i registi che hanno realizzato una profonda riflessione sul cinema, sul suo essere luogo, spazio dello sguardo e Il cielo sopra Berlino in qualche modo sintetizza questa riflessione. Lo spazio è ciò che sta intorno ai volumi. Qualcosa che nasce dalla densità di qualcos'altro. Come in un modellino che riproduce un edificio, un quartiere, una città, lo spazio è il vuoto tra le sagome e diventa palpabile per il fatto che può essere attraversato. Quando Damiel sceglie l'umanità, smette di essere ovunque e altrove ed è lì. Diventa un corpo che fende l'aria, produce attrito, sta tra le cose. È mortale e dunque cammina, respira, ha una solidità che gli impedisce di attraversare la materia, è costretto ad aggirarla, ma sente. Stare in cima ai tetti per gli angeli è un soffio, per un uomo una vertigine. Entrare nei pensieri di qualcuno è un dono degli angeli, per un uomo è la conquista di una vicinanza, una progressione graduale, rischiosa, incerta, un'avventura. E a quel punto dentro e fuori si capovolgono. L'esterno è umano, tattile, corposo, l'interno è impalpabile e divino. Gli spazi umani esistono attraverso i sensi: odore, sapore, suono, tatto, colore. Quelli divini stanno sui tetti a sfiorare il cielo o nella vicinanza a tutto, in ogni luogo e tempo, ma priva di consistenza. E la linea di confine tra le due dimensioni è proprio il tocco impercettibile degli angeli quando sfiorano i corpi: non sentono la materia ma l'intimità al loro interno.
Tutto questo è reso magnificamente nel film dalla città stessa, nel movimento per le strade brulicanti, nella desolazione della periferia, a ridosso del muro che spacca Berlino in due, tra scaffali e libri dell'immensa biblioteca pubblica, sul trapezio del circo, nel rombo fragoroso dell'armatura angelica che precipita a terra e rimbalza sulla testa di Damiel.
Il salto spericolato da Hitchcock a Wenders, passando per Kubrick, mi porta al punto: quale forma gli occhi danno alle cose. Se il cinema è la narrazione visiva di uno sguardo sulla realtà vera o immaginata, lo spazio è qualunque luogo - vero o immaginato - contenga quella narrazione. La grande destrezza è rendere lo sguardo uno spazio perfetto.

Sui film: "La finestra sul cortile" (Rear Window) è del 1954, ha aperto la serata inaugurale della Mostra del Cinema di Venezia quell'anno; "Shining" (The Shining) è del 1980, è tratto dal famoso omonimo romanzo di Stephen King; "Barry Lyndon" è del 1975, ha vinto l'Oscar per la fotografia e la scenografia; "2001: Odissea nello spazio" (2001: A Space Odyssey) è del 1968, ha vinto l'Oscar per gli effetti speciali, il famoso valzer è "Sul bel Danubio blu" di Johann Strauss, il tema principale è "Così parlò Zarathustra" di Richard Strauss; I"l cielo sopra Berlino" (Der Himmel über Berlin) è del 1987, ha vinto a Cannes il premio alla regia, le figure degli angeli si ispirano alle poesie di Rainer Maria Rilke, molti dialoghi sono di Peter Handke.