Trovare linguaggi, raccontare storie, divergere dalla realtà. Dal teatro allo schermo, i territori sempre nuovi di Natalino Balasso

07.02.2023

Di questi tempi è difficile parlare davvero, è difficile farsi ascoltare. Sarà perché in realtà si sente un grande chiasso, voci sovrapposte, scomposte, spesso francamente inutili. E anche questo pensiero appena espresso è abbastanza banale. Però emerge forte, sopra il chiacchiericcio di tutti.
Non importa se le parole in questione sono dette o scritte, l'impressione è di fare una fatica enorme.
Cosa c'entra questo con Natalino Balasso? Moltissimo.
Conversare con lui (al telefono, non perché se la tira, ma perché oggettivamente quale altro modo abbiamo di questi tempi?) per qualche momento ha sospeso il frastuono.
Attore comico, ma anche drammatico, autore e scrittore, calca palcoscenici e schermi, al cinema e nel web; anche in televisione per un certo tempo, ma da lì si è allontanato e spiega perché.
Con i suoi testi e le sue messe in scena cavalca di continuo il cambiamento. Guai a restare uguali, a non sperimentare, a non ascoltare, il pubblico e sé stesso. E soprattutto, guai a non raccontare storie.
Ecco la cosa più importante, raccontare con linguaggi sempre nuovi, raggiungere gli spettatori con percorsi inaspettati.
Lasciare che un testo scritto e recitato mostri le sue sfumature, che le mostri l'attore e che il pubblico le scopra.
Conversare con Natalino Balasso ha sospeso il frastuono indistinto e ha fatto salire il bello di essere artista.

Nell'ultimo discorso di Capodanno hai detto che "l'artista non dà mai risposte, l'artista può solo cantare la grande confusione che c'è"; e in quello precedente, "come puoi divertirti se non hai un luogo consueto da cui divergere? Da questa comicità nemica del paradosso che non conosce le mille sfumature: dal grottesco allo umor, dal capovolgimento all'assurdo al commovente al poetico...". Anche in questo numero di REM, la tua rubrica "Taccuino futile" parla di un ricordo, una messa in scena teatrale e di ruoli. Sembrano tutte riflessioni sull'attore...

Sì, anche se la riflessione non è tanto sul mestiere dell'attore, ma su cosa vediamo dell'arte quando guardiamo un film, uno spettacolo, un quadro... Su come sia consumabile, oggi, la produzione artistica. Mi pare sempre più un'attività "chiavi in mano". Chi produce è anche chi distribuisce e decide la politica: il prodotto arriva al pubblico fatto e finito, completo di istruzioni su come consumarlo. Il cinema (comprese le piattaforme, alle quali ormai si è arreso) più di tutti va in cerca di tag, di etichette: come spettatore devo sapere prima in che modo è definita l'opera d'arte che guardo. Se l'opera assomiglia al tag, il film mi piace, se non gli assomiglia, non mi piace. Però esiste un pubblico che si fa sorprendere e non si fa ingannare dalle etichette.

Anche se il cinema è una macchina complicata e raffinata, spesso il pubblico si fa guidare dalle definizioni omologate.

Da sempre ragiono sul pubblico e la mia elucubrazione attuale sull'arte riguarda più che mai il pubblico, perché credo che oggi tutto sia più centellinato, come in una dose omeopatica: dentro una pubblicità trovo anche un'estetica artistica, ma la finalità non è artistica, è vendere i prodotti. Qualcuno potrebbe dire che anche Leonardo Da Vinci vendeva prodotti, perché le opere commissionate dalla Chiesa nel Rinascimento servivano a promozionare l'immagine della Chiesa. Sarà vero, però oggi è sempre più difficile percepire un'opera d'arte come tale, è sentita piuttosto come un sottofondo alla vita. Se uso la musica non come qualcosa da ascoltare, ma come un mezzo per avere vibrazioni di sottofondo (c'è chi studia ascoltando musica), diventa tappezzeria. Come i quadri scelti in base all'arredamento di casa. L'arte si adegua al tipo di consumo: i comici del sud si adeguano a un respiro milanese perché a Milano c'è la televisione, quelli del nord recitano alla maniera romana perché il cinema si fa a Roma. Su questo il cinema è un paradigma interessantissimo: film realizzati con una troupe di un centinaio di persone che pensano ad ogni dettaglio, compreso al formato dei film e all'effetto sul grande schermo, e poi la gente li guarda sul telefonino.

Tra le pièce teatrali che hai portato in scena ci sono classici come Goldoni, Cechov, Beckett, adesso Ruzante, ma anche monologhi come Velodimaya e Dizionario Balasso che lavorano sulle parole. Sei camaleontico. E al cinema sei un'altra cosa ancora. Questa varietà ha a che fare con l'idea di fuggire a quelle etichette?

Sicuramente sono linguaggi diversi, difficili da trasferire dalla letteratura, al teatro, al cinema, al video (televisivo o web). L'errore sarebbe proprio trattarli allo stesso modo. Avremmo un impoverimento nel modo di recitare. Sui temi la prima domanda che l'artista dovrebbe porsi è: cosa sto facendo? La peggiore nemica di un artista è la routine. Se approccio impiegatiziamente questo lavoro, avrò un pubblico che si accontenta e vuole rivedere le stesse cose: un atteggiamento infantile del pubblico che garantisce dei risultati all'artista. Credo sia sempre necessario farsi lo sgambetto. È l'unico modo per trovare linguaggi nuovi e per trovare lo stimolo a creare cose nuove. Non uso più youtube come un canale dove produrre perché, semplicemente analizzando come il pubblico guarda i video, si capisce che il 90% delle persone regge uno due minuti, poi passa ad altro. Penso sia necessario cercare un altro pubblico. Per questo ho costruito il Circolo Balasso, fatto di canali a pagamento. Non è un discorso artistico: la persona che paga è più motivata a guardare quello per cui ha pagato. Forse non è sempre così, però la percentuale di pubblico interessato è molto più alta. Questa è l'altra domanda: mi interessa avere tanto pubblico collegato per 30 secondi? Da questo sono fuggito quando ho lasciato la tv. Preferisco esplorare altri territori. L'artista dovrebbe farlo sempre.

A proposito di territori. Quello della comicità è molto vasto. Ma sul palcoscenico come al cinema sei passato più volte da ruoli comici a drammatici. Un esempio sul grande schermo è il tuo personaggio, spigoloso e ruvido, in Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher. Qual è il registro più difficile per te tra comicità e dramma?

Penso che l'attor comico dirà sempre che il ruolo più difficile è la comicità e l'attor tragico il contrario. In verità credo che l'attore vero sia in grado di giocare entrambi, basta pensare a Gassman o a Mastroianni. Però conta la specificità: ci sono attori molto portati per la comicità perché hanno i "tempi" e grazie a questo, con l'esperienza, riescono molto bene anche nei ruoli drammatici. L'attore comico ha i tempi interiorizzati. La comicità non è facile o difficile, se non ce l'hai non la puoi inventare o imparare. Puoi solo imparare delle tecniche. Avrei amato fare musica, ma ho rinunciato perché non sono portato. Per la comicità è uguale. E se la commedia viene fatta come ripiego, è una cosa triste.

Al cinema hai lavorato più volte con Carlo Mazzacurati.

Ho lavorato in diversi film di Mazzacurati, ma alla fine l'unico nel quale ho davvero recitato è La giusta distanza. Lui era una di quelle persone che amano circondarsi di amici, a volte mi chiamava e diceva: guarda, non c'è da fare niente in questo film, però voglio che tu ci sia. Aveva questo atteggiamento, ed è il motivo per cui tanti attori lo adoravano.

Era un rapporto di amicizia il vostro.

Sì, lo era. Ci siamo conosciuti relativamente tardi, quando aveva già fatto diversi film. Mi veniva a vedere, era un mio estimatore esattamente come io ero un suo estimatore al cinema. Poi ci siamo conosciuti e ha voluto che facessi La giusta distanza. Mazzacurati aveva un legame particolare, di affetto, con il Delta del Po, ci andava con suo nonno. Perciò, trovarmi a fare il primo film con lui a due passi da dove sono nato, è una di quelle cose che ti porta a pensare che un po' era destino. L'amicizia tra me e lui si è allargata alle famiglie (sua moglie e la mia) e siamo ancora molto affezionati. Quando ci sono legami personali, la dimensione artistica viene vissuta in modo più libero rispetto ai rapporti solo di lavoro.

Sei di Porto Tolle. Che rapporto hai con il Polesine, con il Delta del Po?

Sono rimasto nel Delta più o meno fino a diciotto anni, poi sono andato in Emilia. In quei diciotto anni mi sono spostato tra collegi e seminari. Andavo all'asilo a Ca' Pisani, ho abitato a Contarina, sono stato cinque anni a Chioggia. Insomma, ho vissuto un po' tutte le abitudini del Delta in quei pochi anni. Abito in Emilia-Romagna da oltre quarant'anni e nel rapporto che si ha con un territorio la profondità è proporzionale al tempo: più il tempo è largo, più le radici affondano. Sono d'accordo con Mazzacurati, quando diceva che il Delta del Po è anche una scenografia. Un paesaggio rimasto più o meno identico a sé stesso: se guardiamo le foto di cent'anni fa e quelle di adesso, il Delta è cambiato molto meno rispetto a luoghi più metropolitani. Credo sia per me soprattutto un'immagine, un paesaggio rimasto impresso. Come una madre che muore giovane, il bambino cresce ma si porta dentro l'immagine di una ragazza. È questo il tipo di affezione che ho nei confronti del Delta. Ci sono comunque tornato spesso, dunque non è solo questione di abitarci. In ogni caso non ho rimpianti, nostalgia per i luoghi. Casa è dove sono adesso, non faccio fatica ad affezionarmi in fretta ai posti in cui mi trovo. Il Delta è come un ricordo, un'immagine mitizzata. Col passare del tempo diventa romantica.

Hai recitato nella pièce La Bancarotta di Vitaliano Trevisan, adattamento del testo di Carlo Goldoni. Che ricordo hai di quella esperienza teatrale?

Con Vitaliano non ci siamo frequentati molto, anche se lui mi aveva cercato per fare Pantalone quando La Bancarotta era arrivata in finale al Premio Riccione, voleva metterla in scena con il Teatro Stabile del Veneto. Lo spettacolo all'epoca non si fece, ma dopo dieci anni ho voluto prendere in mano il testo perché mi era piaciuto moltissimo. Non ho avuto molti rapporti con Vitaliano, era difficile parlare con lui se non eri suo amico. Per Arlecchino servitore di due padroni di Valerio Binasco lo abbiamo chiamato per scrivere un libretto di sala, anche in quella occasione non c'è stata una grande confidenza. Rimane il dispiacere per un artista che se ne è andato e che avrebbe potuto scrivere ancora cose importanti. È stato importante a livello nazionale.

Da fine 2021 porti in scena lo spettacolo Balasso fa Ruzante (Amori disperati in tempo di guerre). Che tipo di lavoro è?

Su questo Ruzante ho fatto due tipi di lavoro: di autore e di attore. Autore, perché non si può oggi affrontare Ruzante così com'è scritto, a meno di fare archeologia e di rivolgersi a quella piccola parte di pubblico che accetta di vedere ciò che non comprende all'istante. La maggior parte degli spettatori, se non capisce quello che sta ascoltando, si allontana. Una volta il pubblico a sud guardava Goldoni in veneziano, al nord Eduardo in napoletano. Adesso gli spettatori fanno fatica, basta pensare a Servillo praticamente costretto a tradurre in italiano anche Eduardo. In Ruzante c'è poi un problema con le storie. Mi piacciono i suoi dialoghi, ma le commedie prese una ad una mi sembrano poco interessanti. Dunque, ho pensato di costruire una drammaturgia nuova, una commedia come se l'avesse scritta Ruzante. Ho utilizzato diversi plot delle sue commedie, dove i protagonisti sono due uomini e una donna contesa: il protagonista e il suo amico, a volte sodali a volte contrapposti, vogliono la stessa donna, una figura che in Ruzante è sempre volitiva, dominante da un punto di vista intellettuale. Dunque, ho scritto la commedia imitando molte trovate del Beolco, ma c'era la questione della lingua. Per costruirne una che il pubblico percepisse come antica, ho tradotto la commedia in un fiorentino un po' rinascimentale, e per venetizzare il tutto ho utilizzato come filtro i diari di Antonio Pigafetta, navigatore vicentino che scriveva in un fiorentino pieno di venetismi, il più delle volte strafalcioni, dunque comprensibili anche fuori regione. Il risultato è una sorta di lingua nuova: quando c'è l'azione scenica il pubblico non sa neppure cosa sta ascoltando. È l'effetto di un italiano che, tra cadenza, inflessione e strafalcioni, dà l'idea di una lingua vernacolare o di un'altra lingua.

Quanto è difficile nel tempo pandemico che viviamo portare il teatro a teatro?

Le difficoltà sono le nostre rigidità. In situazioni di questo tipo (non dimentichiamo che il nostro paese ha vissuto la guerra, dunque ci sono cose peggiori) il teatro e tutti gli ambienti lavorativi tendono a tirare avanti come se non fosse successo niente. Per esempio, a teatro continua la vendita dei biglietti online, si detta legge con le prenotazioni aperte tre quattro mesi prima... Credo che in un periodo in cui non sappiamo neppure se fra tre quattro mesi il teatro sarà aperto, bisognerebbe utilizzare il normale sbigliettamento e consentire le prenotazioni senza costi. Dopo due tre volte che gli spettatori prenotano o acquistano in prevendita, lo spettacolo viene annullato e si fatica ad ottenere il rimborso, ecco, forse le persone si disaffezionano al teatro e al cinema. Non è una scelta intelligente e non è intelligente da parte delle grosse biglietterie online non restituire i soldi pagati. Ecco, siamo rigidi. Credo che questo sia il nostro peggior nemico. Nell'ultimo anno il teatro, anche se a singhiozzo, si è fatto e si farà sempre di più. La situazione è stata brutta soprattutto per i lavoratori dei teatri privati, non potendo spendersi altrove sono rimasti a casa. È un problema lavorativo più che artistico. Quello che mi ha fatto inorridire è voler spacciare il teatro in streaming per teatro. Una responsabilità del nostro Ministero della Cultura, ma credo che non ci sia un Ministero della Cultura. È come il cinema sul telefonino. La gente pensa di vedere un film, ma non è cinema. Riprendere uno spettacolo teatrale e metterlo su un video è noioso e penso allontani il pubblico dal teatro.

Oltre a Ruzante a teatro, hai progetti al cinema?

Dovrebbe uscire l'ultimo film che ho fatto con Gabriele Salvatores, Il ritorno di Casanova. E poi sono concentrato sul fatto di invitare la gente a guardare Il Conte Nikolaus, un film fatto in casa che non è adatto ad essere proiettato, tant'è che se lo proietti è più brutto. È proprio meglio guardarlo sul televisore. Ma rispetto al cinema ho sempre privilegiato il teatro: non ho mai fatto saltare una data teatrale per impegni cinematografici.

Torno al pungolo iniziale sull'attore e sulla comicità. In Comedians di Gabriele Salvatores dici: "La maggior parte dei comici mettono in piazza paure e pregiudizi, ma i migliori illuminano".

Cerco di non mettere in piazza paure e pregiudizi, mi riferisco a battute razziste e sessiste che spesso fanno ridere la gente. Da anni non mi domando più se quello che dico fa ridere o meno; se voglio divertire utilizzo delle tecniche, ma privilegio sempre il racconto. Torna il problema dei tag: televisione, cinema, teatro devono vendere delle etichette in base alle quali il pubblico si aspetta di ridere o di piangere. In realtà non è così: ci sono spettacoli e film comici molto profondi, a tratti commoventi. Dunque, che importanza ha il risultato? Ridere è un effetto, equivale a piangere. Conta quello che fai per far ridere. Anche il solletico fa ridere. Il ruolo che dobbiamo avere come autori e attori è di raccontare storie. Il divertimento è proprio divergere dalla realtà. Un documentario è la cosa più vicina alla realtà, ma anche lì c'è finzione, è un racconto, cioè qualcosa di diverso dalla realtà.

Conversazione con l'attore Natalino Balasso
pubblicata nella rivista REM, Anno XIII, n. 1 del 28 febbraio 2022, Apogeo Editore pp. 36-41